Nel 1781 il pittore svizzero Johann Heinrich Füssli dipinse uno dei suoi quadri più famosi, intitolato L’incubo, opera che destò notevole interesse sopratutto tra gli intellettuali di quel periodo.

Erano, infatti, gli anni del preromanticismo ed i contenuti del dipinto, un piccolo essere scuro abbarbicato sul corpo di una ragazza dormiente, l’ambientazione gotica, la testa di un cavallo con pallidi occhi inquietanti (in realtà, e vedremo perché, si tratta di una “cavalla”) si prestavano a simboleggiare l’erotismo, l’angoscia, l’illuminazione fioca, temi tanto cari agli artisti di quel periodo e che saranno presenti in innumerevoli opere di tutto il romanticismo, come nel famosissimo Frankenstein, o il novello Prometeo, scritto nel 1816 da Mary Wollestonecraft Shelley, moglie del poeta britannico Percy Bysshe Shelley.

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Fig. 1
Il dipinto L’incubo di Johann Heinrich Füssli (Detroit Institute of Art).
Appare evidente come il pittore abbia voluto rendere protagoniste dell’opera il cavallo e il demonietto che opprime il petto della dormiente.

Notando quel piccolo essere sul petto della dormiente e preso atto del titolo del quadro, tutti coloro che conoscono le tradizioni popolari romagnole non possono fare a meno di tracciare un parallelismo con il folletto tipico di questa zona dell’Italia, il mazapégul: una delle azioni che si ascrive a questa figura è, infatti, proprio quella gravare sul petto di un dormiente rendendogli difficile il respiro e provocando così un senso di angoscia, insomma un sonno tormentato da incubi[1]; ma le stesse persone, leggendo l’analisi critica del dipinto di Füssli, rimangono però sconcertate quando scoprono che in quell’opera la simbologia dell’incubo non è lo scuro nanetto, ma il cavallo.

Si chiedono per quale motivo l’incubo debba essere simboleggiato da un cavallo anziché dal piccolo demone che opprime il dormiente.

Infatti con il termine incubus (dal verbo latino incubare, "giacere sopra") già gli antichi romani intendevano un demone che giaceva sui dormienti, creando il senso di soffocamento; chi soggiaceva all’incubus era detto succubo.

Nella maggioranza dei casi si supponeva che il succubo fosse una donna, costretta ad un congiungimento carnale con il demonio; da queste gravidanze indesiderate si generavano figli dotati di qualità magiche[2]. Questa credenza continuò per parecchio tempo, assumendo caratteristiche sempre più sinistre; anche Sant’Agostino ricorda “…silvani e fauni, comunemente denominati “incubi”, spesso sono sfacciati con le donne e hanno bramato e compiuto l'accoppiamento con loro…”[3].

Inoltre esistono tanti altri dipinti in cui questo stesso concetto viene espresso da un piccolo essere che preme sul petto del dormiente, e ciò senza che appaia un cavallo; un esempio è un quadro del pittore danese Nicolai Adbilgaard.

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Fig. 2
Disegno al margine di manoscritto medioevale.
Mostra l’incubus che opprime una inconsapevole vittima, costringendola ad un atto sessuale che porterà alla nascita di una prole dotata di poteri malefici.

In questo caso il lavoro mostra solo il demonietto. Per capire la genesi di questa interpretazione del fenomeno bisogna rifarsi alla storia dell’antica cultura germanica (Füssli era svizzero tedesco) per trovare il demone Mårt[4], (e il suo corrispettivo femminile Marë) che, come il folletto romagnolo, avevano l’abitudine di appoggiarsi sul petto dei dormienti provocando difficoltà di respirazione, senso d’angoscia e incubi; da ciò nacque l’idea dell’esistenza del demone notturno Nachtmårt (anche nella versione femminile Nachtmarë) come responsabile di quest’angosciosa sensazione. Questa tradizione passò alla cultura anglosassone dove, per quegli strani fenomeni delle variazioni etimologiche e della loro interpretazione, il suffisso –marë venne confuso o involontariamente mutato nel termine inglese mare (che significa “cavalla”): da qui il fatto di intendere l’incubo notturno come nightmare, ossia la “cavalla della notte”[5].

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Fig. 3
Particolare di un dipinto di Nicolai Adbilgaard.

D’altro canto nel linguaggio inglese il termine mare, per quanto significhi “cavalla”, trova una valenza anche nella simbologia dell’oscurità, nella tristezza, nell’angoscia. Derivato dall’ebraico (marah)[6], termine che significa "amaro", e in senso lato "amarezza", "tristezza", "infelicità" e che poi si ritrova negli aggettivi come "amareggiato", il vocabolo percorse tutta l’Europa con questa accezione negativa.

Nei paesi britannici il termine moore con il significato di “nero” è antecedente agli attuali termini black (nero) e brown (scuro, bruno) ed è ancora presente, quale antico retaggio del linguaggio di quei tempi, in alcuni cognomi inglesi contemporanei, come Moorehead (Testanera).

Anche in Italia troviamo lo stesso retaggio del termine mara nella sua connotazione negativa in “amara”, ad esempio in frasi come “terra mara” (paese sfortunato, infelice); lo studioso di religioni Alfonso Di Nola suppone che l’antico lamento funebre delle vedove dell’Italia centrale che iniziava con la frase “Mara me pecchè si muorte” (Infelice me, perché sei morto) abbia addirittura dato origine alla filastrocca “Maramao perché sei morto ….”[7].

Nella tradizione popolare russa la kikimora è un demone, una vecchia dal lungo naso a becco d'uccello e con zampe di gallina, ed il significato letterale del suo nome è “spirito del mora”, (spirito dell’infelicità)[8], ed anche la kikimora è portatrice di incubi notturni.

Ma in Europa era presente da parecchio tempo, come abbiamo visto, anche la credenza di un demone sotto forma di un maligno folletto che opprime il petto del dormiente (e questo indipendentemente dal concetto della “cavalla della notte”); da ciò si può dedurre che Füssli raccolse entrambe queste leggende fondendole nel suo dipinto nella contemporanea presenza delle due figure, quasi volesse distinguere tra il responsabile vero e proprio dell’incubo (la cavalla) e l’entità che si prestava ad applicare la punizione (il demone folletto).

Anche l’evoluzione che ha coinvolto la cavalla generatrice di incubi ha dei collegamenti con il folklore della Romagna.

Nel mondo della tradizione popolare celtica e britannica esiste una figura che generalmente si presenta come un cavallo che vive in stagni e paludi; a volte può trovarsi anche in mare; si è detto “generalmente” con la forma di un cavallo, perché a volte può presentarsi come una fanciulla o di una vecchia, di un giovane, di un cigno o una cornacchia, di una lontra, un enorme castoro o una volpe.

Queste figure vengono chiamate kelpie, oppure each-uisge (che in gaelico significa “cavallo d’acqua”), each-mhara (sempre in gaelico “cavallo di mare”)[9]. L’unico modo per accorgersi se si tratta di animali o persone vere è quello di pettinarne la criniera nel caso dei cavalli, o i capelli negli esseri umani: se nel pettine restano residui di alghe, sabbia, o erbe palustri si tratta di queste figure fatate[10]. Creature analoghe si ritrovano anche nelle leggende norrene e nelle tradizioni popolari germanico-scandinave.

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Fig. 4
Un kelpie

Molto spesso questi esseri vengono considerati demoni malvagi, che attirano vittime per affogarle per poi cibarsene (evidente collegamento con la figura della sirena nelle tradizioni mediterranee); ci si può salvare solo catturandoli e mettendo loro al collo una cavezza sulla quale sia impresso un simbolo cristiano (una croce, una preghiera, una colomba, ecc….); in questo caso diventano schiave degli esseri umani e possono essere utilizzate come bestie da lavoro.

Queste succinte note sui kelpie ci mostrano tutte le classiche caratteristiche dei personaggi della tradizione popolare: è presente in un’ampia area (dall’Irlanda alla Svezia); proviene da tradizioni diverse (si presente in svariate forme); si è cercata una spiegazione razionale del fenomeno (si dice che sia stata inventata per spaventare i bambini e tenerli lontani dai corsi d’acqua); ma, soprattutto, come tutte le figure magiche non cristiane è stata combattuta dalla religione cristiana (l’asservimento mediante la cavezza recante simboli cristiani) e, in quanto figura pagana, è stata demonizzata e resa soprattutto come un “demone donna”.

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Fig. 5
Jenny Greenteeth (Jenny Dentiverdi) in una immagine dell’illustratore britannico contemporaneo Alan Lee.

Con il passar del tempo, infatti, la figura della cavalla è scomparsa, sostituita da figure femminili con antropomorfia umana: così nei paesi britannici ed in Irlanda si trova Jenny Greenteeth (Jenny Dentiverdi); in molte regioni alpine italiane e nella pianura, fino alla Romagna, la terribile anguana e la tenebrosa borda; la marabecca in Sicilia (che vive dentro i pozzi); le fenettes in Francia; le villi in Germania.

Tutte figure femminili che vivono in corsi d’acqua, maligne e antropofaghe.

Quanto è stato riportato si presta ad alcune considerazioni.

Innanzitutto la distinzione tra chi origina la punizione e chi la applica simboleggiata, forse inconsciamente, da Füssli inserendo le due figure tipiche di due diverse tradizioni (cavalla e demonietto) ci permette di comprendere più approfonditamente il cosiddetto “aspetto malevolo” dei folletti (o presunti demoni) di tutte le tradizioni, compreso quello del mazapégul romagnolo.

La credenza del carattere maligno di cui queste figure godono nel pensiero popolare corrente, risente dell’avversità che per secoli è stata è loro mostrata dalla cultura religiosa; nella lotta per sconfiggere il paganesimo tutte le chiese organizzate hanno demonizzato sia le figure del pantheon pagano colto, che quelle che venivano dalle tradizioni popolari. Così il dio Pan è diventato, con corna e zoccoli, la classica figura del demonio, le sirene esseri antropofagi, le naiadi donne ammaliatrici che portano l’uomo al peccato della lussuria.

Ma non era questa la considerazione della quale godevano nell’antichità: non erano loro ad essere demoni maligni, non erano responsabili dell’incubo, erano solo portatori di un giudizio morale espresso da un’entità più alta di cui diventano i semplici esecutori, magari quasi dispiacendosi della punizione che si vedevano costretti ad infliggere; questa interpretazione è perfettamente in sintonia con la loro caratteristica di personaggio tutoriale, come si è cercato di dimostrare in altri lavori[11].

La seconda considerazione riguarda la misoginia dei loro avversari: che si trattasse di folletti, di cavalle, o di altri personaggi dalla più svariata antropomorfia, finivano sempre per essere trasformati in demoni maligni femminili.

[1] Sappiamo, in realtà, che il gravare sul petto del dormiente è un’azione di folletti anche di altre regioni italiane. Ad esempio in veneto il calcatrèp, che esprime già nel proprio nome questa caratteristica (“calca-trippa”, ossia premere sugli organi dell’addome), la pesàntola in Istria, l'ammuntadore in Sardegna, il calcarello in Emilia, la smara ancora in Veneto.

[2] Era la versione opposta al mito dei figli generati dall’accoppiamento degli dei con donne umane che, invece, generavano eroi o semidei. E’ molto probabile che questa idea sia stata suggerita proprio da persone che facevano delle cosiddette “arti oscure” la propria professione, come maghi, astrologi, cartomanti, al fine di “vendersi” meglio.

[3] Sant'Agostino d'Ippona, De Civitate Dei, XV, 23.

[4] L. M. Lombardi Satriani (a cura di). Santi, streghe e diavoli, Firenze, Sansoni, 1971.

[5] Ricordiamo che ancor oggi, nell’inglese corrente, il termine nightmare significa “incubo”.

[6] R. Patai. The Hebrew Goddess, Wayne State University Press, 1990.

[7] A. Di Nola. La nera signora. Antropologia della morte e del lutto, Newton & Compton Editori, Roma, 1995.

[8] R. Khanam. Demonology: socio-religious belief of witchcraft, Delhi 2003.

[9] Nicolas Brown. Fairies in Nineteenth-Century Art and Literature, Cambridge University Press, 2001.

[10] D. Gabaldon. La Straniera, Corbaccio, Milano, 2003. Doverosamente occorre riferire che il testo citato è un romanzo di fantasia ma, a detta dell’autrice, i riferimenti alle figure folkloriche sono tratte dalla tradizione popolare.

[11] R. Cortesi. Il Mazapégul, il tutore della tradizione romagnola. L’insegnamento etico mediante docetismo e ironia, da Hermes a Pulcinella, Società Editrice “Il Ponte Vecchio”, Cesena, 2019.