Espressioni di cui non si ritrova più traccia si devono alla polverizzazione in tante micro-aree delle tradizioni popolari e del dialetto?

Si rimane sempre molto colpiti dalla quantità dei “modi di dire” presenti nel dialetto romagnolo; quelli che hanno avuto la possibilità di dialogare con gli abitanti (soprattutto anziani) di questa regione si saranno resi conto che basta il tempo di un pomeriggio passato assieme a qualcuno di loro per sentirsi snocciolare non solo proverbi, ma anche battute salaci, frasi derisorie, alcune in rima e altre no, ma sempre dotate di un concetto di base che pare esprimere una sorta di isolamento dal mondo dei comuni mortali, come se si ritenesse sé stessi ad un livello superiore a quello del proprio interlocutore e si volesse suggerire, pur senza dirlo a parole: ”Ascolta, stupidotto, cosa ha da dirti di chi ha capito più di te!”.

Qualcuno, probabilmente, avrà potuto prendere questo comportamento per spocchia, o comunque come un modo antipatico di troncare un discorso ritenuto superfluo, ma in realtà si trattava solo di un modo per ribadire una certa saggezza acquisita con la tarda età, l’unico sistema, scomparsa la forza fisica ed ormai lontano il ruolo di guida nel gruppo famigliare, per porsi un’ultima volta come detentori di qualcosa che ancora non è appannaggio dei giovani. Conversazioni avute con persone che si occupano dello studio delle tradizioni popolari ci consentono di affermare che questo fenomeno è presente in quasi tutte le regioni d’Italia[1].

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L’ultimo periodo della vita è sempre stato, per gli anziani, il periodo del ripensamento sugli avvenimenti della propria esistenza. I modi di dire tipici di una persona sono l’unica maniera che rimane loro per poter insegnare ancora qualcosa ai più giovani.

Si riportano alcuni esempi[2], iniziando proprio da quel particolare modo di interrompere ragionamenti o valutazioni ritenuti superflui. Una delle frasi rintracciate, utilizzante una parafrasi alimentare, era: “ … u s capes che un toch ad furmai l’è mej d’una coda ad caval!...” (Certamente un pezzo di formaggio è meglio di una coda di cavallo!), oppure, in un ambito molto simile: “… fret l’è bon enca i sarmint…”(Fritti sono buoni anche i tralci).

Ma la frase più tagliente (in questo caso, bisogna ammetterlo, non priva di una certa cattiveria) era il giudizio, espresso con un tono che non ammetteva assolutamente repliche, su quelle persone verso le quali la bellezza era stata un po’ avara: “… se a tot i bel u i tuches un toch ad zambela, a lo un gni spitareb gnenca e padlon.” (Se a tutti i belli spettasse una fetta di ciambella, a lui non spetterebbe neanche il padellone).

Occorre un chiarimento per quanto riguarda il termine padlon. Per lo meno nella zona in esame, quando c’era una festa alla quale dovevano partecipare molte persone - come un matrimonio - il forno di casa non era sufficiente per cuocere la quantità di ciambella necessaria, anche perché camino e forno venivano impegnati con altre pietanze. Perciò si chiedeva aiuto al fornaio locale che, per un modesto compenso, metteva a disposizione il proprio forno e uno dei suoi usuali contenitori per la cottura del pane (un elemento rettangolare, stretto e lungo, di lamiera scura, e padlon, “il padellone”). Sullo stesso contenitore veniva poi recapitata a casa la ciambella, ed alla fine era utilizzato come “piatto di portata” finendo sulla tavolata imbandita per la festa.

Ma non c’erano solo frasi per zittire l’interlocutore; qualche volta, sulla scorta di una mentalità repubblicana molto forte in quella particolare area (e quindi anche ferocemente anticlericale, per lo meno fino all’immediato dopoguerra) si rivolgevano salaci commenti anche ai dettami della chiesa ufficiale, quella delle ritualità che venivano ritenete inutili: “… tre aqui u s struscia int la vita: l’aqua par batzè, l’aqua par lavè i murt, l’aqua par mis-cè e vein…” (Tre volte si sciupa l’acqua nella vita: per battezzare, per lavare i morti, per annacquare il vino); o ancora, quando si doveva esprimere un commento sulla durezza della vita e degli innumerevoli ed inevitabili guai che questa comporta: “…avreb to qualcadun par biastmè a ovra…” (Vorrei assumere qualcuno che bestemmiasse a pagamento). Non mancavano, naturalmente, considerazioni filosofiche sulla vita in genere, come: “… a guardè in so u s pò pistè una merda, ma a guardè sol da bas t an vid e’ zil...” (Guardando verso l’alto si può schiacciare una merda, ma a guardare solo verso il basso non vedi il cielo); oppure (da parte delle donne) altre in cui si poteva intuire chiaramente una certa critica al mondo maschile, non certo molto comune nei tempi passati: “… la moj sota a lavurè, e’ marid sora a cmandè…” (La moglie sotto a lavorare, il marito sopra a comandare), frase nella quale quei termini “sota” e “sora” erano probabilmente una metafora sessuale un po’ velata ma destinata a rafforzare la critica all’uomo.

Quando dalla filosofia generale si passava all’etica sociale, quella che si manifesta nel comportamento della normale esistenza di tutti i giorni, l’ idea sul vantaggio della cooperazione era chiaramente espressa da frasi come questa: “… un sach da par tè, tri sach in du, ot sach in tri…” (Un sacco da solo, tre sacchi in due, otto sacchi in tre); oppure il classico suggerimento per avere una vita sana che non mancava di elargire a tutti quelli che si lamentavano di qualche problema fisico: “… stè so cun la sulaza, andè a let cun la putanaza…” (Alzarsi con il sole e andare a letto con la prostituta). Pur nella comprensione generale di quest’ultima frase, ci è voluto molto tempo per capirne la genesi, dato che il termine “sulaza” non appartiene certamente al vocabolario romagnolo, e la seconda parte della stessa non sembra proprio un suggerimento per avere una lunga vita salutare; l’analisi porta a concludere che l’esortazione di “alzarsi presto e presto coricarsi” facesse riferimento al sole ed a Venere serale, quest’ultima trasformata in una donna dai discutibili costumi a causa di nozioni importate dalla cultura dotta non correttamente conosciuta, mentre il termine “sulaza” veniva evidentemente dalla necessità della rima con “putanaza”.

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Il pianeta Venere, ritenuto una stella dai contadini romagnoli del passato, è un astro che ancora brillava all’alba, così che era detta anche stela buvareina in quanto faceva compagnia ai bovari che si recavano al lavoro molto presto; ma era anche visibile molto presto anche la sera, cosa che ha fatto nascere il modo di dire che è stato ricordato.

E per terminare con modi di dire riguardanti le ultime fasi della vita ricordo: “… sota a una vida a m’avì da splì, che int una casa merza a n voi finì…” (Mi dovete seppellire sotto una vite, perché non voglio finire in una bara marcia), e ancora: “… la Canucera, com ad ogna sfrè la fera, tot agl’erbi de prè la met a pera…” (La morte, come la falce ad ogni colpo, pareggia tutte le erbe del campo) dove ogni riferimento alla poesia ‘A livella di Antonio De Curtis è sicuramente casuale.

Quando si prendono in considerazioni questi modi di dire, o espressioni verbali personali - se tali si vogliono considerare - si rimane stupiti dal fatto che molte di queste (in particolare proprio quelle che quelle che sono state riportate) non sono state più ritrovate in quelli che sono i modi di dire romagnoli oggi più noti e ripetuti, e ciò anche quando si prova a ricercarle in luoghi non troppo distanti dall’area che è stata quella dell’indagine iniziale (ad esempio, Sala, Villalta, Bagnarola, tutte frazioni dello stesso comune).

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Il termine Canucera, uno dei nomi della morte in romagnolo, trae origine dal mito delle tre Parche, Cloto, Làchesi e Àtropo, le vecchie tessitrici della vita. Figlie di Giove e Temi (la Giustizia) Cloto aveva in mano la conocchia (da cui il nome Canucera) e filava il filo della vita; Làchesi  dispensava i destini, assegnandolo ad ogni individuo e stabilendone la durata; Àtropo tagliava il filo  al momento della morte. Invece la loro rappresentazione nell’immaginario comune non poteva che venire da come è sempre stata rappresentata da pittori e illustratori popolari fin dai tempi più antichi: uno scheletro ammantato e fornito di falce.

Per questo motivo viene spontaneo chiedersi se erano modi di dire diffusi nel mondo contadino di quel periodo e dei quali oggi abbiamo perso il ricordo (come è accaduto, purtroppo, per molti altri aspetti della nostra tradizione) oppure se si trattava di invenzioni, di improvvisazioni estemporanee, dovute ad un innato spirito sarcastico di quei tempi e di quella gente.

L’antropologo francese Arnold Van Gennep, in un suo lavoro sulla genesi del modo in cui si creano figure e prototipi destinati a perpetuarsi[3], afferma che tutto ciò che si trasmette nel tempo non fa che venire da quell’enorme serbatoio rappresentato dalle invenzioni di tutti, ma solo quando chi lo ha generato rappresenta un punto di riferimento all’interno del proprio gruppo sociale, cioè quando questa persona è considerata un “elemento carismatico” per quelli che gli vivono vicino. Non era questo il caso delle persone coinvolte nell’indagine. Dalle informazioni sul loro stato sociale si apprende trattarsi di individui di bassa scolarità (comunque considerata nella media di quel periodo) che sapevano appena leggere e scrivere, e che non avevano mai avuto un ruolo pubblico tale da poter essere considerate persone di riferimento.  La loro professione era quella di contadini o donne di casa, e il loro viaggio più lungo era quello per recarsi nei luoghi circostanti al loro territorio di nascita (Cesena o Forlì); per gli individui di sesso maschile l’unico momento in cui uscivano da questo stretto ambito era stato, in tutta la vita, uno solo, quello del servizio militare.

Se non si trattava di invenzioni personali si deve ritenere che si trattasse di modi di dire comuni, magari limitati ad un’area geografica estremamente limitata come era quella del luogo in cui le persone intervistate erano sempre vissute, e che sono scomparsi perché quelle poche persone rappresentative di quell’area limitata oggi non ci sono più.

Ma a questo punto sorge un altro interrogativo. Ammettendo valida l’affermazione di Van Gennep, ci si può chiedere allora quanto deve essere esteso il proprio gruppo sociale perché un modo di dire divenga “punto di riferimento”, ossia diventi un modo di dire comunemente accettato come frase di validità generale, insomma un “proverbio”? Deve essere composto da cinquemila persone, o ne sono sufficienti cinquecento, o cinquanta? In questo caso i modi di dire ritrovati sarebbero da considerare “proverbi” in quanto il loro carisma veniva semplicemente dal fatto di essere considerati persone spiritose da parte di quei pochi individui che rappresentavano il loro mondo?

Se così fosse si deve necessariamente concludere che questo fenomeno doveva essere stato qualcosa di molto diffuso: sarebbero potuti esistere “serbatoi locali” di esternazioni comuni, molto limitati geograficamente, ma di questi serbatoi ne potevano esistere moltissimi, parallelamente all’alto numero di “zone limitate geograficamente”. Pochi modi di dire moltiplicati per molti gruppi danno come risultato molti modi di dire. E il fatto che tali zone limitate fossero moltissime dipende dal fatto che il concetto di lontananza di un’area geografica (e quindi lontana anche nei comportamenti e nel linguaggio) era molto diverso, allora, di quello che abbiamo oggi che sappiamo che sono necessarie solo otto ore per recarsi negli Stati Uniti, o che ne bastano sedici per recarsi in Nuova Zelanda, esattamente dall’altra parte del mondo rispetto all’Italia.

Uno studio per verificare questa possibilità potrebbe essere molto interessante, anche se è evidente la difficoltà della sua realizzazione: comporterebbe l’analisi comparata di migliaia di allocuzioni poco note associate a centinaia di aree geografiche “limitate”. Se fosse vera, dovrebbe valere anche per gli altri dialetti italiani e stranieri e, per logica, anche per le lingue nazionali, perlomeno fino ai tempi in cui l’invenzione dei mezzi di comunicazione moderni ha reso il mondo un unico grande villaggio, quello in cui un proverbio dei nativi americani finisce per diventare patrimonio culturale di tutto il mondo. Ad ogni modo, qualunque possa essere il risultato di un’indagine come questa, rimane il fatto che queste espressioni rappresentano una formidabile rappresentazione del carattere di una popolazione, e quindi, siano esse state condivise da più persone o meno, rappresentano indubbiamente le caratteristiche antropologiche di un gruppo sociale.

[1] Si è discusso di questo argomento con Anselmo Calvetti (romagnolo), Manlio Cortelazzo (veneto), Modestino Della Sala (campano).

[2] Per la ricerca delle espressioni verbali ci si è basati su dialoghi con persone nate e vissute nell’area di Cannucceto, frazione del comune di Cesenatico. L’età degli intervistati variava da 65 a 85 anni.

[3] A. Van Gennep: Le origini delle leggende. Una ricerca sulle leggi dell’immaginario, Xenia, Milano, 1992.