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In questa pagina si trovano lavori di antropologia culturale elaborati per indagare le tradizioni, i miti e le leggende popolari, con particolare riferimento (ma, come si è già detto, non esclusivo) alla Romagna.
Il materiale di partenza sono le tradizioni popolari di questa parte dell’Italia, le fiabe, i racconti, i proverbi ed i modi di dire, ma anche la toponomastica, il dialetto, gli antichi documenti bibliografici ma anche, naturalmente, i lavori più recenti sullo stesso argomento di tanti studiosi e ricercatori.
Quando antropologi e studiosi delle tradizioni popolari pongono mano all’analisi di un mito o di una leggenda, sono aiutati da quello che si chiama “lo schema di Vladimir Propp”.
È noto che questo linguista ed antropologo russo, dall’esame di un immenso serbatoio di tradizioni popolari, fiabe e racconti di tutto il patrimonio letterario conosciuto, abbia desunto una regola fondamentale: oggetti, situazioni, trame e protagonisti si presentano molto simili in quasi tutto il mondo, ed a queste corrisponde poi un significato altrettanto simile. Ciò gli ha permesso di creare lo schema della struttura tipica di una fiaba, ormai accettato universalmente, che permette un approfondito studio dei patrimoni popolari.
Questo significa che in un qualunque racconto popolare, sia che venga dalla Cina o dall’America del Sud, è possibile rintracciare dei ruoli ben definiti (il protagonista, il padre del protagonista, il suo aiutante umano, l’aiutante magico, il suo nemico, ecc…), delle situazioni definite (la partenza da casa, il viaggio, la lotta, la vittoria, il ritorno …).
Questo schema che, come dicevamo, è oggi accettato da tutti, trova continue conferme all’avanzare di questo tipo di ricerche.
Nonostante lo schema di Propp sia noto a tutti coloro che si occupano di questi studi, anche loro rimangono comunque sempre piacevolmente colpiti quando scoprono queste “coincidenze” che vanno oltre i confini nazionali, probabilmente perché se la semplice schematizzazione risponde ad aride necessità di studio, l’imbattersi in un personaggio di una fiaba siberiana che ricordi, ad esempio, “il gatto con gli stivali” di infantile memoria, va ad interessare tratti emozionali mai sopiti, anche nelle persone adulte.
Non deve sembrarci strano, quindi, identificare tratti e personaggi molto simili nel patrimonio tradizionale romagnolo ed in quello irlandese.
La tradizione popolare irlandese è una delle più ricche dell’Europa Occidentale; ciò si deve alla relativa povertà economica dell’Irlanda rispetto alla maggioranza dei paesi europei della stessa area, che ha costretto questo paese ad un’economia basata sulla ruralità, ed alla conseguente emigrazione (e sappiamo quanto gli ambienti rurali trasmettano più di altri la tradizione, e come l’emigrazione tenda a stimolare il ricordo del proprio passato).
Questo repertorio è ricco di tratti comuni alla tradizione europea, sia nelle favole per bambini che, soprattutto, in quelle fiabe (veri e propri “insegnamenti morali”) diretti al pubblico adulto.
Nei racconti di William B. Yeats[1] non facciamo che imbatterci in sciocchi contadini che vengono ingannati da loro compaesani più furbi, in mogli adirate nei confronti del marito ubriacone, nel diavolo (in Irlanda spesso chiamato famigliarmente “il vecchio Nick”) che finisce inevitabilmente gabbato dal protagonista, in preti gioviali e dal viso rubizzo, amanti del wisky e della buona tavola; insomma una situazione non molto differente da quella delle nostre storie campagnole, fossero quelle raccontate nelle stalle a lume di candela, o quelle inventate da Olindo Guerrini.
Il leprechau, il folletto ciabattino, è uno dei più noti fra i folletti irlandesi.
Non mancano neppure, naturalmente, gli agganci ai filoni classici della tradizione favolistica europea: il mito di Melusina[2], sviluppato in tutti i suoi aspetti di amore per i figli ed il marito, contrastato però dalla nostalgia del proprio paese “non umano”, ad esempio ne La Signora di Gallerus, o in Grace Connor[3]; la tradizione della “caccia selvaggia”, ne La leggenda di O’Donoghue[4], dove il protagonista sembra una fotocopia della figura del re Teodorico che si lancia nelle fiamme del vulcano in groppa al suo cavallo; ancora la tradizione germanica del folletto Rumpelstilzchen, che trasformava la paglia in oro, nella storia Le due filatrici; un riferimento che rimanda poi proprio alla nostra zona è quella dell’interpretazione del ticchettio provocato dai picconi dei folletti sotterranei, interpretato come segno del tempo che passa, analogamente a quanto si dice in Romagna dei rumori notturni delle case, definiti popolarmente “l’orologio della Madonna”.
E proprio relativamente a quanto attiene alla Romagna ci pare interessante indagare un particolare, rilevato appunto in alcune fiabe irlandesi, che lega certi personaggi di questo paese al mazapégul, una delle figure più tipiche della nostra regione.
Prima di cadere in un troppo facile parallelismo tra il mazapégul ed i vari folletti della tradizione irlandese, occorre subito far notare che il folletto romagnolo è una figura totalizzante, ossia una figura che riassume in sé parecchie caratteristiche, ognuna delle quali rappresentativa, invece, di diversi stati d’animo a volte anche contrastanti: può essere tremendamente collerico ma anche affettuoso (una delle caratteristiche che maggiormente lo caratterizzano è la “tutorialità”, ossia l’aiuto sia fisico che morale che porta agli uomini, con insegnamenti diretti magari, a volte, anche in maniera non del tutto consapevole, ed a volte invece con le bastonate) dispettoso fino all’inverosimile ma anche servizievole (sono noti i racconti in cui distrugge ciò che trova, ed altri in cui invece mette ordine in una casa disordinata nella quale, nottetempo, si è intrufolato, e tutto ciò senza un’apparentante ragione logica).
Una interpretazione recente del mazapégul.
Queste caratteristiche complesse ci inducono a ritenere che il mazapégul sia il risultato di molte figure precedenti, ognuna con le proprie caratteristiche individuali che, con l’avanzare del tempo e la razionalizzazione dell’aspetto “fantastico” delle tradizioni popolari, hanno finito per trasferirsi in questo unico soggetto a cui è stata concessa l’esistenza: dopo che il cristianesimo aveva trasformato in démoni alcune divinità pagane, dopo che altre erano state assorbite sincreticamente dallo stesso pantheon religioso dominante, le tradizioni più radicate, sebbene mutilate, ridotte, diminuite di valore, si sono cumulate in questo ultimo piccolo personaggio della tradizione popolare romagnola.
Forse proprio il suo essere di statura minuscola e simile ad un animale, che lo apparenta quindi ad una bambola di pezza, ad un giocattolo per bambini, rendendolo perciò inoffensivo (almeno all’apparenza) è stato uno dei motivi della sua sopravvivenza.
Nel caso dei folletti irlandesi la cosa è diversa: ognuno di loro ha una caratteristica ben precisa ed un ben preciso campo d’azione.
Anche il nome e l’aspetto fisico sono diversi, per quanto quasi sempre con antropomorfia umana: quando è gentile e servizievole è chiamato leprechaun[5], ed in questo suo aspetto, nonostante una certa vena di follia (è un calzolaio ma aggiusta una scarpa sola) è decisamente favorevole agli uomini, ai quali può confidare il luogo in cui sono sotterrati immensi tesori; quando, al contrario, è cattivo e dispettoso (e si tratta sempre di cattiveria pura, immotivata, molto spesso attuata con bastonate, ma anche graffi e morsicature) viene definito claurichaun, mentre nella sua versione più mistica, si potrebbe dire metafisica, quasi un essere tra gli dei e gli uomini dei quali non riesce a capire la mentalità (soprattutto non capisce perché gli uomini si facciano trasportare dai propri sentimenti violenti) viene chiamato pooka.
Gli aspetti funebri della tradizione dell’isola sono svolti invece da un personaggio femminile, la banshee, annunciatrice di morte; da notare che questo aspetto relativo alla sfera religiosa manca invece nel mazapégul, il quale venne probabilmente privato di questa funzione dato che, essendo relativa alla sacralità, era troppo importante perché non fosse attribuita e gestita da figure della religione ufficiale[6]. Qualcosa di questo aspetto legato al mondo funebre è rimasto, nel mondo mediterraneo, solo nelle antiche figure delle lamentatrici greche ed in quello, più vicino a noi, delle “prefiche” del meridione d’Italia.
In questa pur necessaria differenza che occorre tener presente per non cadere in interpretazioni troppo affrettate e fuorvianti, uno degli elementi fissi nelle due figure è la presenza del cappello, generalmente rosso, e soprattutto del fatto che sottrarre il cappello a questi due personaggi significa assoggettarli al proprio volere[7].
Qualche esempio.
Nel racconto Le gabbie d’anime[8] il protagonista, Jack Dogherty, conosce Coo, abitante di un regno incantato, che usa il suo cappello per spostarsi dal suo mondo a quello degli uomini; poiché Jack vuole trafugargli un tesoro gli ruba il cappello per sottrarre a Coo le sue capacità magiche.
Nel già citato racconto di Croker La signora di Gallerus è invece una sirena a possedere la capacità di viaggiare tra il mare ed il mondo terreno grazie ad un cappello fatato. Sposa un uomo e vive perciò la sua vita di moglie lontano dal mare, e questa volta è il marito a sottrarre il cappello, per paura che la moglie sia presa dalla nostalgia del suo luogo d’origine e finisca per abbandonarlo (ancora un collegamento al mito di Melusina).
Finirà male, naturalmente, con la donna che ritrova il cappello e ritorna definitivamente alla sua terra sotto il mare, ma non senza un grande rimpianto, e questo finale si adatta perfettamente alla mentalità triste e malinconica di un certo tipo di letteratura irlandese, con origini popolari ma con accenti romantici già appartenenti a classi più intellettuali.
Nel racconto Un ballo indiavolato il protagonista, Seamus, diventa schiavo di un folletto malvagio (in questo caso si adombra evidentemente la figura del claurichaun) ed è costretto a sottoporsi a lavori e viaggi faticosissimi per soddisfare i desideri del padrone; quando il folletto si introduce nel granaio in cui si festeggia il matrimonio di due giovani contadini con l’intento di rapire la sposa, Seamus riesce a rubargli il cappello, e costringe il claurichaun a balli sfrenati, ognuno di diverso tipo, a seconda di come lo dispone il cappello stesso sul tavolo dei commensali, fino a far fuggire il folletto stremato dalla fatica.
In questo caso, quindi, non solo il copricapo fa scomparire le capacità magiche del folletto ma conferisce il suo potere al nuovo proprietario; questo aspetto è appena accennato nella tradizione del mazapégul, il che ci dimostra, una volta di più, come la figura della tradizione irlandese sia più complessa e variegata di quella del folletto romagnolo; fenomeno dimostrato anche dal fatto che in questa tradizione non sono solo i folletti a portare il cappello, ma anche sirene e strani abitanti di mondi incantati (il Coo protagonista de Le gabbie d’anime).
Nelle sirene che si incontrano nel folklore irlandese non è difficile riscontrare tratti che le apparentano alle tradizioni degli antichi greci e romani, ossia alle figure delle ninfe e delle naiadi; infatti sono spesso legate al mare, ma anche a specchi d’acqua lacustri, a sorgenti, a fiumi. Altro elemento di collegamento è il legame con gli uomini mortali, con aspetti che vanno dall’erotico al sentimentale. Inoltre il comunissimo tema dell’abbandono del marito e dei figli, dopo un iniziale felice momento della vita matrimoniale, è indubbiamente legato al mito medioevale di Melusina, precorritrice di quei fermenti sociali che porteranno le donne di qualche secolo dopo ad interrogarsi sulla loro condizione all’interno della società patriarcale.
Questa complessità della tradizione irlandese si manifesta anche nella variabilità dell’oggetto in sé stesso: a volte è un cappello floscio a punta (del tipo di cui siamo abituati a vedere tradizionalmente sulla testa dei folletti) a volte il classico tricorno settecentesco, a volte, nelle sirene, probabilmente per adattarsi alla gentilezza femminile, viene ricordato come “un cappellino rosso piumato” (cohullen druith, in gaelico) mentre le sirene delle terre del nord dell’Irlanda si avvolgono la testa in una pelle di foca (denominata in gaelico con il nome di selkie).
In ogni caso si tratta evidentemente di un simbolo di regalità (come la corona dei re, l’aureola dei santi, la mitra nel clero cristiano, ecc..) che identifica il personaggio come appartenente ad una categoria superiore a quella umana; lo stesso concetto di superiorità è identificata, nel nostro mazapégul, dalla mazza (o, a volte bastone, o ancora, in dialetto romagnolo, la zaneta) elemento che manca invece nella tradizione irlandese a causa di quella maggiore “specializzazione” delle figure di questo folklore di cui si è detto.
Una Banshee visita un uomo gravemente ammalato per accertarsi della sua prossima morte. Qualche attimo prima che ciò avvenga emetterà lunghi lamenti, e da quel momento in poi il destino dell’uomo sarà segnato. Ogni Banshee è legata ad una famiglia irlandese, e questo fatto, oltre le differenze regionali, contribuisce alle infinite differenzazioni di questa mitica figura.
Esistono poi altri aspetti che meriterebbero di essere indagati, anche per le varie differenze tra le figure delle due diverse tradizioni: le caratteristiche amorose del mazapégul, ad esempio, sembrerebbero trasferitegli dalle figure femminili della tradizione irlandese, per lo meno l’aspetto erotico, mentre quello dell’ambivalenza amore - odio per l’uomo sembrerebbe essere rimasto eredità di altre figure romagnole femminili, come l’anguana[9].
Studiando questi particolari potrebbe essere meglio chiarito, probabilmente, quel lungo processo di elaborazione di questo personaggio, elaborazione che ne ha fatto l’unico folletto superstite delle tradizioni romagnole.
[1] Di questo autore irlandese sono spesso stati pubblicati gli stessi lavori in molteplici e diverse pubblicazioni. Per un orientamento generale, a chi volesse approfondire quanto qui riportato, si può suggerire: William B. Yeats, Fiabe Irlandesi, Fabbri Editori, 2001.
[2] Sulla figura di Melusina, e sulla sua incidenza con le tradizioni della Romagna, vedere i lavori: QUADRISTORIA (Parte Prima e Seconda). Melusina, Lilith, Arlecchino e Pulcinella. Tradizioni popolari sulla famiglia in Romagna, mito e teatro, nell’ambito delle contrapposizioni e collaborazioni nella lotta tra i sessi, pubblicati alla pagina TESTI di questo stesso sito.
[3] Entrambi i racconti in: Croker, Thomas Crofton: Fairy Legends and Traditions of the South of Ireland, John Murray, London 1825.
[4] Carleton, William: Traits and Stories of the Irish Peasantry (First Series). Dublin, 1830.
[5] Dal nome gaelico del termine “calzolaio”, leath bhrogan (letteralmente “colui che lavora il cuoio”).
[6] La suddivisione delle varie caratterizzazioni dei folletti irlandesi proposta in questo lavoro è, naturalmente, estremamente limitata e schematica, volta semplicemente ad esprimere il concetto delle “molte figure”. Nella realtà lo scenario del leggendario irlandese è estremamente più complesso, variando da regione a regione e risentendo di un forte senso della località. Così, di regione in regione dell’Irlanda, si trovano personaggi dalle caratteristiche molto simili tra loro ma con nomi completamenti diversi: spriggan, boggart, kelpie, ecc…
[7] Fenomeno riportato su diversi testi, come Mason, William S.: Statistical Account or Parochial Survey of Ireland, drawn up from the Communication of the Clergy, Dublin, 1814; Wilde, W.: Irish Popular Superstition, Dublin, 1853. Carleton, William: op. citata. Da notare che le moderne versioni del leprechaun, adattandosi alle necessità del moderno mercato pubblicitario, hanno finito per snaturarne la classica immagine tramandata dalla tradizione; oggi viene spesso utilizzato, assieme all’arpa irlandese ed al trifoglio, come marchio identificativo di prodotti tipicamente irlandesi, e quindi mostrato come un piccolo uomo sorridente, vestito di verde (il colore rappresentativo dell’Irlanda) cappello compreso, e con abiti rifacentesi ad una foggia riferibile alla fine “800.
[8] Curtin, Jeremiah: Myst and Folklore of Ireland, London 1890.
[9] A riguardo dell’”anguana” si rimanda al lavoro: TRA BORDA E ANGUANA. Similitudini e discrepanze tra figure femminili legate al culto delle acque. Il loro ricordo tra Romagna e regioni nordiche, pubblicato alla pagina TESTI di questo stesso sito.