Da prova iniziatica a prova d’eroismo. La socializzazione alla base di un rito (e di un gioco) antico.

Gli alberi della Cuccagna, con il loro carico di pollame, salumi, vettovaglie di ogni tipo, compaiono sempre più spesso nelle sagre paesane di molte cittadine della Romagna; nel passato erano presenti particolarmente nelle campagne che, più di altre zone caratterizzate da economie diverse da quella rurale, sono sempre state quelle che hanno conservato le tradizioni antiche; da qualche decina d’anni si è notato invece una loro ricomparsa soprattutto nella zona costiera, e una scomparsa dalle zone collinari. 

Il motivo va ricercato nello sviluppo della nostra società e in quel particolare fenomeno di essa rappresentato dal turismo. Da una parte la campagna e la collina si sono svuotate sempre più, fenomeno iniziato nel periodo tra le due guerre mondiali, riversando gli abitanti verso le città e le cittadine della riviera, alla ricerca di lavoro e di uno stile di vita che si riteneva (a torto o meno) più consono con i tempi; dalla parte opposta città e riviera hanno aumentato la loro popolazione.

Sembrerebbe quindi automatico che l’incremento del “gioco” dell’albero della Cuccagna nei paesi di mare sia dovuto ad una “migrazione” di questa tradizione trasportata dalle popolazioni rurali nei loro spostamenti.

In realtà la cosa non ha seguito questa dinamica. I contadini e gli abitanti delle zone collinari che si trasferivano cercavano, come abbiamo detto, uno stile di vita diverso, e tendevano a considerare “sorpassato” quello che conducevano nelle loro zone d’origine, uno stile del quale molto spesso si vergognavano, che valutavano “non moderno”, arcaico, legato a strutture sociali che volevano dimenticare. Volevano diventare cittadini a tutti gli effetti, che i figli aspirassero a posizioni migliori della loro, e il dimenticare il passato (tradizioni comprese) era uno dei capisaldi della loro trasformazione.

Questo concetto, questa paura di non essere sufficientemente integrati nelle società che li ricevevano, è stato presente per molto tempo anche nelle seconde e terze generazioni dei trasferiti, per quanto nate già nelle città o in riviera; non era difficile sentire uno di questi personaggi rimproverare un certo atteggiamento arcaico dei propri genitori con la frase “…sa sit ancora un muntaner ?...” (…sei ancora un montanaro ?...) quasi a esorcizzare una possibilità in realtà temuta.

Era ancora lontana l’idea, che la nostra società ha cominciato ad elaborare solo dopo il fenomeno della migrazione in Italia dei nord africani e degli europei dell’est, che la diversità culturale potesse essere un elemento positivo.

Queste persone non hanno dato, quindi, un grande contributo nella trasmissione delle proprie radici culturali. Fortunatamente alcune tradizioni erano già presenti nelle zone romagnole della riviera, e questo ha permesso che non venissero dimenticate.

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L’albero della Cuccagna in un’illustrazione di Giuseppe Vasi del 1710. L’albero compare all’interno di una ricca architettura modellata secondo il gusto dell’epoca, a dimostrazione di quanto il gioco fosse diffuso.

Poi lo sviluppo del turismo, la possibilità di fare della tradizione dell’albero della Cuccagna un avvenimento che incrementava l’offerta turistica, la possibilità di trasformarla in un evento divertente e spettacolare (il tradizionale albero verticale qui è quello invece inclinato, posto sull’acqua, che permetteva al pubblico di divertirsi ai tuffi dei partecipanti) ha permesso a questa tradizione di continuare ad esistere, anzi le feste con questo gioco si sono moltiplicate. Non per niente abbiamo parlato di “pubblico”; infatti una tradizione è diventata soprattutto spettacolo, cosa che non era nel gioco antico: in quei tempi le persone erano dei “partecipanti” al gioco, mentre ora sono quasi esclusivamente “spettatori”[1].

L’origine della festa è ascrivibile indubbiamente a quel fenomeno di “rovesciamento dei valori” tipico delle feste carnevalesche[2]. Il desiderio del rinnovamento trasforma questo periodo in un momento in cui si travalicano le abitudini usuali, e tra queste c’è il desiderio del mangiare e bere in maniera esagerata.

È da ciò che è nata la mitologia del Paese di Cuccagna, una sorta di paradiso pagano e carnale, dove si potevano soddisfare fame e sete senza limiti.

Il nome nasce probabilmente dalla radice latina coq-, radice che poi evolve anche nell’italiano “cucina”, nell’inglese "cake", nel tedesco "kuche".

Nelle varie lingue, il paese di Cuccagna assume vari nomi: in Francia Cocagne; in Gran Bretagna Cockaigne; in Spagna Cucaña. Già nella commedia "I minatori" del commediografo greco del V secolo a.C. Ferecrate si accenna ad un paese dove ci sono "… fiumi pieni di polenta e di brodo nero …", e in una novella dell'ottava giornata del Decamerone si trova descritto il paese di Bengodi: “….. ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattuggiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi….".

Si possono inoltre ricordare due orazioni popolari in dialetto romagnolo, che riportano rispettivamente “…. e’ Paradis, … d’in c’u si canta fésta, sòna e rid…” (un Paradiso dove si canta festa, si suona e si ride), e “… j è un nobil Paradis, pen ‘d caplet, ‘d lasagn e ‘d ris …” (c’è un nobile Paradiso, pieno di cappelletti, di lasagne e di riso)[3].

Ma la bibliografia (e l’arte pittorica) che riporta del paese di Cuccagna è immensa; si ricorda il Dit de Cocagne di un autore anonimo del XIII secolo, o Li fabliau de Coquigne della stessa epoca, il "Trionfo dei poltroni" di anonimo del XIV secolo, il Terra di Jaunja di Lope de Rueda del Cinquecento, Das Schlaraffenland di Hans Sachs del 1530, Le Roy de Cocagne di Marc-Antoine Le Grand del 1719 e le fiabe dei fratelli Grimm. Tra gli autori italiani la "Historia nuova della città di Cuccagna", della fine del Quattrocento di Alessandro da Siena, la "Storia di Capriano contadino", di autore anonimo del 1500, il Baldus di Teofilo Folengo, sempre dello stesso periodo, un poema anonimo pubblicato a Siena nel 1581 dal titolo "Capitolo di Cuccagna", della "Piazza universale di tutte le professioni e i mestieri", del romagnolo Tommaso Garzoni; nel “600 il "Della discendenza e nobiltà dei maccaroni" di Francesco De Lemene.

In pittura, oltre alla La nave dei folli di Sebastian Brant del 1494 ed alle innumerevoli imitazioni che ne seguirono, ricorderemo il famosissimoIl Paese di Cuccagna” di Pieter Bruegel, le stampe del settecento “La Coccagna Nuova, trovata nella Porcolandia l'anno 1703 da Seigaffo”, o nell'opera di un anonimo del XVII secolo intitolata “La Cuccagna, descrizione del paese di Cuccagna dove chi più dorme più guadagna”.

Se nel periodo carnevalesco l’abbondanza, l’esagerazione, a volte lo spreco, era considerato un fatto consueto, perché quello era un periodo che andava al di là delle situazioni normali, altrettanto non si poteva dire di tutti gli altri diversi momenti in cui, con l’albero della Cuccagna, si festeggiava la stessa abbondanza. Durante il periodo di Carnevale il mondo era sottosopra, e il benessere del paradiso si riversava sulla terra; negli altri periodi questo non succedeva, per cui occorreva trovare una nuova strada per riportare lo stesso benessere sulla terra, diverso da quel mundus[4] che era riservato solo al periodo carnevalizio.

L’albero fu lo “strumento” utilizzato a questo scopo.

In tutte le civiltà del passato gli alberi hanno rappresentato per l’uomo un elemento estremamente importante: fonte di cibo e di riparo per i popoli neolitici nella fase dell’agricoltura, diviene anche fonte di materiale da costruzione per le generazioni successive. Il suo utilizzo comincia a diminuire solo in epoche vicinissime a noi (vicinissime dato che trattiamo di scale di tempo in senso antropologico) ossia con la tarda rivoluzione industriale e con l’avvento delle materie plastiche.

A tutto ciò corrispondeva inevitabilmente un notevole rispetto ed un particolare simbolismo, fenomeno a cui contribuiva non poco la sua forma: era facile pensarlo come un ponte di collegamento tra mondi diversi, viste le radici che affondano nel terreno, il fusto a contatto con gli uomini e i rami che sembrano toccare le nuvole. La simbologia di “luogo ponte” ed assieme “luogo di separazione” fu probabilmente il suo primo significato simbolico.

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Questo disegno della tradizione grafica celtica esemplifica perfettamente l’albero come elemento ternario (sottoterra, terra, cielo) e nel contempo come unione dei tre mondi in un unico cerchio universale.

Quindi elemento di separazione ma anche elemento ponte, luogo attraverso il quale si potevano raggiungere le dimore delle divinità; ecco perciò che l’albero diventò anche uno dei simboli delle prove iniziatiche. Scalare l’albero ritualizzava, tramite una prova fisica, il coraggio di un ragazzo che diventava adulto ed andava ad ingrossare le file dei guerrieri. Se la prova dei giovani era solo un rito che tutti dovevano compiere, la sua scalata poteva però anche rappresentare, in altri casi, l’azione di pochi, di qualche eroe che raggiungeva mete a cui altri uomini non erano in grado pervenire.

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Ygdrasill, l’albero cosmico delle popolazioni nordiche di cultura finnica ed islandese.

Come oggetto dell’azione dei soli eroi l’albero aumentò la sua sacralità, assumendo anche il significato delle opere riuscite, soprattutto di quelle più importanti, quelle che potevano essere compiute anche dall’universo “non umano”, quindi simbolo della primavera che si rinnovava tutti gli anni vincendo il freddo dell’inverno, il simbolo della luce che sconfiggeva le tenebre.

Sono esistiti molti culti primaverili che ponevano l’albero al centro della ritualità sacra e, per estensione del concetto, trasmettevano la stessa sacralità alle foglie verdi, ai fiori, ai prodotti agricoli, soprattutto a quelli che si ottenevano nel periodo estivo, soprattutto il grano. Feste latine, soprattutto quelle legate al culto di Cerere, avevano l’albero come elemento importante, anche se non centrale, del rito.

Ma è soprattutto durante il medioevo che si moltiplicano i riti centrati sull’Albero di Maggio: le tante feste in Italia chiamate, anche oggi, “Maggi”, o “infiorata di maggio”, o “feste del verde”, o i vari “cantar maggio”, o anche il Kirchtagsmichl in Alto Adige.

In Germania si è mantenuta fino ad oggi la festa del Maibaum, in Inghilterra quella detta Maypol, dove si danza attorno ad un albero ornato di nastri multicolori a simboleggiare la fioritura, ricordo dell’antica festa di Beltane.

La sacralità dell’albero ha contaminato anche i concetti del cristianesimo, che abitualmente non accetta un simbolismo così legato a simboli di vecchie religioni pagane, non tanto nei testi, quanto nelle rappresentazioni pittoriche, così come si è introdotta nella simbologia laica degli avvenimenti politici: il caso più eclatante è quello dell’Albero della

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Albero nella cristologia


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Albero della Libertà dei giacobini.

Libertà che i giacobini piantavano nelle piazze principali dei paesi dove riuscivano a portare il messaggio della Rivoluzione Francese[5].

Un ricordo di questo fenomeno, in un luogo psicologico che sta tra il sacro e il profano, è quello dell’attuale albero di Natale.

Sempre di contaminazione che parte da questi concetti possiamo parlare nel caso della Festa dei Gigli, una festa religiosa che si tiene ogni anno a Nola in occasione delle celebrazioni per il santo patrono, il vescovo Meropio Paolino; secondo la leggenda i nolani festeggiarono il ritorno dalla prigionia del vescovo con dei fiori, dei gigli, appunto.

In ricordo di quell’avvenimento tutti gli anni i nolani portano in processione delle alte e pesanti strutture in legno chiamate “gigli”, ognuna delle quali ha un nome relativo alle corporazioni degli antichi mestieri della città: fabbri, sarti, ortolani, calzolai, beccai, salumieri, panettieri e bettolieri. Dopo la “cacciata” (avviso alla popolazione del rinnovarsi della festa) i gigli procedono ondeggiando (movimento detto “cullatura”) fino alla destinazione finale. Seguono pranzi di gruppo (le “tavuliate”).

Non è difficile scorgere in questa tradizione un antico rito che accenna alla natura, con i gigli trasformati in simbolici alberi, con un indubbio riferimento al totemismo tribale (ogni giglio destinato ad un mestiere) ed all’aspetto religioso del contatto con le divinità (la “cullatura” rimanda ai ritmi ossessivi e ripetuti per ottenere l’estasi religiosa, come nei riti sciamanici) e infine le “tavuliate” riportano all’aspetto ludico ed esagerato del paese di Cuccagna.

Festa praticamente identica è quella detta Festa dei Ceri di Gubbio, dove si ritrovano esattamente tutte le caratteristiche identificate nella festa di Nola.

Ma tornando all’albero della Cuccagna, oltre ai significati simbolici visti fin qui, dobbiamo aggiungerne un altro.

Abbiamo già detto del significato di prova iniziatica superata solo dagli eroi, da uomini particolari che sono superiori agli altri in coraggio (non solo fisico ma, data la sacralità del simbolo, anche di carattere e spirituale).

Molto spesso, nelle feste paesane attuali, quelli che vincono la gara distribuiscono il premio anche ai propri amici, a coloro che fanno parte del gruppo che si è formato per dare la scalata all’albero. C’è in questo il fenomeno della condivisione con altri ritenuti parte della stessa gente, ma anche quello della prodigalità verso i meno fortunati, quelli che non riuscirebbero a sopravvivere senza le vettovaglie portate al mondo degli uomini da questi novelli Prometeo che hanno avuto il coraggio di strapparli al mondo degli dei.

Questi fenomeni non sono caratteristici della sola cultura europea.

I nativi americani attuavano il potlàc, analizzato da Marcel Mauss nel suo lavoro Saggio sul dono. In questo fenomeno culturale l’autore interpretava la festa e il rito come movimenti economici rovesciati, volti cioè alla dilapidazione dei beni da parte di chi ne aveva in abbondanza, e conscio della propria superiorità non si sottraeva ad un rito sociale che riteneva naturalmente e fisiologicamente “etico”.

Non è sbagliato, pertanto, riconoscere il fenomeno della socializzazione in questo antico rito, anche se ora si presenta quasi esclusivamente come un gioco.

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Un’interpretazione pittorica del “cantar maggio”.

[1] Questa considerazione oggi vale, in effetti, per quasi tutte le cosiddette “feste tradizionali”, che sono più uno spettacolo che un rinnovarsi di quelle che erano le origini sociali ed antropologiche di una tradizione. Forse solo il Palio di Siena conserva ancora alcune caratteristiche dello spirito originario, per lo meno per una certa parte dei cittadini senesi.

[2] Vedere, a questo riguardo, il lavoro “Le origini del Carnevale” alla pagina Testi di questo stesso sito.

[3] La prima delle citazioni appare su: F. B. PRATELLA – Poesie, narrazioni e tradizioni popolari in Romagna – Lares, anno XIII, n° 6, dic. 1942, pag. 196; la seconda su: UMBERTO FOSCHI – La poesia popolare religiosa in Romagna – Maggioli Ed., Santarcangelo di Romagna, 1969, pag. 194, Entrambe le citazioni sono state analizzate dal punto di vista antropologico in: F. CORTESI, R. CORTESI – Sacro e Profano. La religiosità popolare in Romagna tra reminiscenze pagane e cristianesimo – Ed. Il Cerchio, Rimini, 2012, pag. 46

[4] Il mundus era il passaggio tra il mondo reale e quello dei defunti durante il Carnevale. Vedere, a questo riguardo, il lavoro “Le origini del Carnevale” alla pagina Testi di questo stesso sito.

[5] A Ravenna, come in altre città d’Italia, l’albero venne piantato nell’attuale Piazza del Popolo. A ricordo di questo avvenimento esiste ancora una lapide murata direttamente sulla pavimentazione della piazza.