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In questa pagina si trovano lavori di antropologia culturale elaborati per indagare le tradizioni, i miti e le leggende popolari, con particolare riferimento (ma, come si è già detto, non esclusivo) alla Romagna.
Il materiale di partenza sono le tradizioni popolari di questa parte dell’Italia, le fiabe, i racconti, i proverbi ed i modi di dire, ma anche la toponomastica, il dialetto, gli antichi documenti bibliografici ma anche, naturalmente, i lavori più recenti sullo stesso argomento di tanti studiosi e ricercatori.
Nell’evoluzione della specie umana nessuno è mai riuscito ad identificare, nonostante gli innumerevoli tentativi, il momento del passaggio da quello stadio che poteva essere ancora definito “animale” a quello che invece si poteva considerare, a tutti gli effetti, un “umano”.
Non ci si è riusciti con nessuna delle discipline scientifiche perché la risposta sarebbe tutt’al più da cercare nella filosofia o, forse, è addirittura sbagliato porsi una domanda che prevede una separazione che si identifichi attraverso l’analisi di una qualità che potrebbe essere inesistente, un’analisi che confonde l’intelligenza con la coscienza di sé, o l’anima con la bontà d’animo.
Lungi da voler trattare argomenti filosofici, questa breve premessa ci sembrava necessaria per indagare, da un punto di vista antropologico, uno dei tanti argomenti che è stato analizzato nella ricerca di quel momento di passaggio di cui si diceva, ed esattamente il rapporto tra l’uomo e la sua idea del divino e, in particolare, delle sue aspettative da questo legame.
Il primo rapporto che l’uomo ha con la divinità è probabilmente un concetto di paura, di panico che prova di fronte a ciò che gli sembra una forma di potenza superiore a qualunque sforzo umano: un sentimento, quindi, che ha a che fare con la sua parte più animale, legata al concetto di sopravvivenza.
Paura di fronte al potere del fulmine, alla forza dell’acqua e del fuoco, al sopraggiungere del buio, ai morsi della fame: in parole povere paura di fronte alla sua inadeguatezza a sopravvivere decentemente in un mondo ostile.
La paura si attenuò quando l’uomo si accorse che nonostante i “segnali di potenza” e di distruzione inviatogli da questa entità superiore lui e la sua razza continuavano comunque a vivere, e che si trasformò poi in rispetto e di gratitudine per la stessa entità che non solo lo lasciava vivere, ma che gli forniva addirittura gli strumenti e il materiale per sopravvivere.
È in questo periodo che l’uomo si crea un senso del divino come di una forza a lui superiore, che sembra avere come scopo la realizzazione di un essere (l’uomo) dominatore su tutte le altre forme della terra. È il momento della creazione del dio universale, creatore dell’intero universo, le cui appendici sono presenti in ogni forma di vita del pianeta.
Totem in forma animale
Ogni cultura ha elaborato proprie forme mentali nella rappresentazione di questa entità, e che portò all’adozione delle forme totemiche proprio in queste rappresentazioni[1], ma tutte sostanzialmente identiche: il concetto del dio onnipresente, l’animismo tipico di tutte le culture primordiali.
Con la gratitudine verso un’entità che lo aiuta a sopravvivere nasce il concetto di “restituzione”, ossia quello di ricompensare la divinità restituendo, almeno in parte, ciò che è stato offerto all’uomo per la sua sopravvivenza; in questo modo, inoltre, l’uomo fornisce a dio almeno un esemplare di pianta, di animale, che permette al dio stesso di ricrearne altri identici per non far terminare quella forma di vita. La vita non doveva essere interrotta in nessuna della creatura del pianeta, cosa che succederebbe se l’uomo non si privasse di quell’ultima briciola di cibo per offrirla in dono a dio, il: “ricreatore”, dio che si cominciò a vedere sempre di più in maniera antropomorfica.
Gratitudine a dio, e speranza che egli ricrei la vita dalle offerte, sono due concetti molto diversi il primo è privo di secondi fini, attiene alla sfera prettamente spirituale, mentre il secondo nasce dalla speranza di poter continuare a godere della benevolenza e, soprattutto, dalla capacità di dio di ricreare la vita.
Sarà soprattutto il concetto della gratitudine a dio quello colto da alcune religioni di periodi più tardi, quelle che si posero l’obiettivo del miglioramento etico dell’uomo, nonché di diverse scuole filosofiche, quelle che sfociarono nelle tre religioni bibliche e nelle religioni dell’estremo oriente. Questo non significa naturalmente che nelle religioni che noi più comunemente oggi definiamo “pagane”, ossia quelle tipiche del mondo greco e romano[2], ci mostra come in esse fosse più vivo il concetto molto più pragmatico
Totem antropomorfizzato.
dell’utilizzo della capacità “ricreatrice” delle divinità.
Analizzando un rito religioso del mondo greco o romano notiamo, infatti, alcuni elementi che sono indicativi di questo particolare senso pragmatico dell’offerta.
I riti, soprattutto quelli importanti, erano spesso pubblici, avvenivano in presenza di altre persone, quasi fossero testimoni del “contratto” che si stava instaurando con la divinità; l’offerta era solo un “primo” dono, in promessa di altre che, si prometteva solennemente, sarebbero seguite quando il celebrante avesse ottenuto quanto richiesto; la divinità viene chiamata ad impegnarsi su quella specifica richiesta, non le si chiedeva una generica benevolenza.
Il patto non era molto diverso da quello che si sarebbe potuto contrarre tra uomini; l’uomo, superata la fase primordiale della paura del dio universale, vedeva adesso la divinità come un “altro lui”, diverso da sé stesso, più grande e più potente ma che doveva comunque rispondere del proprio operato ad un’entità ancora più grande, quella del Fato; non esaudire un desiderio che era stato richiesto con un’offerta sacra autorizzava l’uomo a considerare inadempiente la divinità, a chiamare a proprio testimone il Fato, ad arrivare addirittura a disconoscerne la sacralità.
In alto un’offerta agli dei su un’ara sacra del periodo romano, in basso particolare di un dipinto illustrante un momento di contrasto tra un uomo e un dio.
Questo concetto di una spiritualità che si può negare ad una figura comunque divina è tipica del periodo religioso politeista, quando immaginare un nutrito numero di dei, magari organizzati in grado parentale come le famiglie umane, rende più facile ammettere che qualcuno di loro possa assumere alcune di quelle caratteristiche negative tipiche dell’uomo (come, appunto, l’inadempienza) che sarebbe difficilmente proponibile nel caso dell’esistenza di un dio unico, per quanto sottoposto all’ineluttabilità del Fato.
Si può addirittura ad arrivare alla lotta con un dio considerato nemico dell’uomo, un dio che viene meno al suo principio ispiratore, quello della creazione dell’uomo come padrone del regno terreno, come nel caso di Prometeo.
Addirittura ci può essere il caso in cui non è un uomo a mettersi in lotta con gli dei, ma la lotta avviene direttamente tra gli dei: anche in questo caso la variegata visione di un pantheon politeista aiuta a categorizzare le divinità, ad identificare divinità buone e cattive, dei potenti ed altri meno, dei padri e dei figli.
E’ il caso di Lucifero, nelle religioni iraniche è visto come l’analogo Prometeo dei greci; è Lucifero che porta agli uomini la luce (che come per il fuoco di Prometeo viene assunto a simbolo della coscienza di sé), e per questo viene scacciato sulla terra, dove gli uomini lo chiamano con questo nome proprio per un’accezione positiva (Lucifero = portatore di luce), mentre la religione cristiana lo trasformerà poi nella figura dell’angelo ribelle: il cristianesimo, nella sua visione monistica sia della divinità che del concetto di “bene”, non può accettare la contrapposizione tra un dio “egoista” e uno “favorevole” all’uomo.
Prometeo punito.
Le cose cambiarono con l’idea filosofica di una divinità più immateriale, meno legata alla corporalità che gli era stata assegnata dalle religioni greca e romana.
Era un concetto che già da tempo era presente nelle religioni dell’estremo oriente, che cercavano di spingere l’uomo a distinguere tra la sua lotta per la vita e la materialità e la ricerca della spiritualità come fine ultimo e più importante, a non coinvolgere la divinità nelle sue aspettative su un improbabile aiuto nella vita di tutti i giorni.
Era il concetto portato avanti da Cristo[3] e da altri capi religiosi, e che nella sua estrema
radicalizzazione non mancherà di spuntare fuori, di tanto in tanto, sopratutto nei periodi in cui il cristianesimo raggiunse il più alto coinvolgimento negli affari legati ad interessi politici ed economici.
Con questo nuovo concetto religioso la divinità non poteva essere invocata per risolvere problemi che non fossero strettamente legati a questioni spirituali, o tutt’al più etiche. Non era lecito chiederle fortuna nella vita, nel commercio, nelle questioni sentimentali (pensiamo invece cosa chiedevano gli antichi a dei quali Marte o Venere).
Non c’era possibilità di auspicare un rapporto di “scambio di favori”, come se si trattasse di un puro rapporto contrattuale, essendo il rapporto stesso con dio destinato al solo miglioramento dello spirito.
Naturalmente questa interpretazione del rapporto con dio non fu raccolta allo stesso modo da tutte le classi; la posizione politica o sociale, il grado di cultura, il fare parte di una classe rurale piuttosto che urbana, il sesso, erano tutte discriminanti che differenziarono lo sviluppo di questo concetto.
Le classi rurali, quelle povere, quelle meno istruite, sono sempre più restie ad affidarsi a nuove concezioni etiche, preferendo rimanere fedeli a quelle che, per memoria storica, erano tipiche della cultura dei propri avi; inoltre un rapporto di “scambio di favori” con la divinità è più congegnale, naturalmente, ad una classe povera: il ricco, che ha già tutto quello che gli serve, non sente la necessità di richieste particolari per migliorare il proprio stato sociale, anzi ha più tempo per dedicarsi a problemi esistenziali.
Ogni classe sociale ha un diverso rapporto con la divinità.
Questo è uno dei motivi per cui certi atteggiamenti antropologici che persistono ancora ai nostri tempi sono da ricercare soprattutto nella cultura popolare[4].
Se il concetto del dio più immateriale ha portato alla figura del credente che prega senza nulla pretendere, affidandosi esclusivamente alla misericordia divina, ma rimanendo fedele al proprio credo anche in caso di infelicità non risolta da dio, e fidando in una felice vita ultraterrena a ricompensa sia della loro fede che di un etico ed onesto comportamento, non mancano credenti che manifestano comportamenti che vanno a pescare in quell’antico serbatoio di paganità.
Nella cultura romagnola sono rimaste alcune tracce dei concetti religiosi pagani che abbiamo incontrato in questo lavoro[5].
È possibile trovare, ad esempio in alcuni racconti dialettali, il senso di contrasto con la religione che coglie un fedele che non ha ritenuto accettata una propria supplica: generalmente l’ira si manifesta inizialmente nei confronti dei rappresentanti del clero, poi si sposta verso la partecipazione al rituale, per arrivare fino alla minaccia di allontanarsi definitivamente dalla comunità ecclesiale.
In un’orazione popolare[6] del sarsinate, risalente agli anni “20 del secolo scorso, si legge: “…… da sta gesa me ne vo, chissa mai se ci arturnarò, se ci foss enca purteta , la mi amna ch’la sia saiveta….”[7] (“… da questa chiesa me ne vado, chissà mai se ci ritornerò, anche se ci fossi portata, che la mia anima sia salvata …”). Il recitante arriva addirittura a proporsi come fedele di un dio diverso, dato che è a questo a cui si appella per la salvezza della propria anima nel caso di essere portato, contro la sua volontà, nella chiesa da cui si è autoescluso.
In altre occasioni si arriva alla derisione di un santo:
“… Piron Tuson chi t’ha tusé, e tu ba, la tu ma, a caval d’un fré, cun e furcon d’la bughé…”[8] (“… San Pietro tosato, chi ti ha tosato, tuo padre, tua madre, a cavallo di un frate, con il forcone del bucato …”)[9].
Tracce sono presenti anche nell’uso dispregiativo di certi termini in dialetto, come sacrament (cosa ingombrante), us-ciaza[10] (persona fastidiosa), crasmè (bastonare, picchiare).
L’orante può rivolgersi a dio senza comunque pretendere nulla.
A volte è presente invece il carattere magico presente nelle religioni antiche, soprattutto quello relativo alla magia per nuocere ad altri, concetto evidentemente non tollerato nel cristianesimo, come nel caso dell’invocazione: “…. San Zvan a mè, maloc a tè ….”[11] ( San Giovanni a me [mi aiuti], il malocchio a te …”).
Un’interpretazione di questa invocazione, a nostro avviso troppo edulcorata, vuole che nel destinatario non si debba vedere una specifica persona, ma un animale, un oggetto o un essere immaginario verso il quale rivolgere un “malocchio” inteso come problema all’organo della vista (arrossamento, eccessiva lacrimazione, orzaiolo).
Ci sentiamo di sostenere che se pure questa era l’interpretazione anche lo stesso recitante riteneva corretta, il suo significato più profondo debba essere ricercato nella “magia per chiamata”, fenomeno tipico delle religioni magiche dell’antichità che permetteva di trasferire negatività a qualcuno semplicemente invocandone il nome.
[1] Il totemismo non è solo un modo di rappresentare le divinità, ma anche quello di esplicitare le prime forme di organizzazione sociale. In questo caso viene messo in evidenza solo il primo concetto perché è l’unico che ci interessa in questa trattazione.
[2] In questo lavoro ci limitiamo a mettere a confronto le sole religioni greca e romana con quelle ebraica, cristiana, islamica ed a quelle dell’estremo oriente, unicamente per semplicità di una schematizzazione che ci permette di giungere alle tesi che si vogliono dimostrare. Le caratteristiche di altre importanti religioni (solo una tra queste, quella egizia) pur nelle loro parziali differenze con quelle trattate, non incidono sulle differenze che intendiamo mostrare. Anche per queste ultime si potrebbe tentare un’analisi per identificarne i punti di discordanza con quelle moderne, ma che qui si evitano per non dare non fosse presente il senso dell’amore verso gli dei, ma l’analisi rituale di queste ultime un’eccessiva lunghezza al lavoro.
[3] Qualcuno ha ipotizzato, visti gli elementi di collegamento tra cristianesimo e religioni orientali, un possibile incontro tra Cristo e figure di queste stesse religioni. Data la mancanza della sicurezza storica della figura di Cristo queste ipotesi, per quanto affascinanti, devono considerarsi relegate per ora nell’ambito dell’immaginazione.
[4] E’ anche uno dei motivi, anche se non il solo e non il più importante, che ha permesso al fenomeno sociale della stregoneria di perpetuarsi soprattutto nelle classi montane e rurali.
[5] Non ci interessa proporre qui esempi della religiosità più pura, meno pragmatica, dandoli per scontati.
[6] Per orazione popolare si intende una preghiera nata direttamente dalla fantasia della gente comune, non presente nel catechismo della Chiesa Cattolica.
[7] V. TONELLI – Il diavolo e l’acqua santa in Romagna. Religiosità, superstizione e diavolerie – Grafiche Galeati, Imola, 1985, pag. 24.
[8] N. MASSAROLI – Paganesimo e umanesimo nella letteratura popolare romagnola – su “ La Piê, 1920, pag. 204.
[9] Il termine “tosare” era (ed è ancora) voce popolare del romagnolo non dialettale per “tagliare i capelli”; il “forcone del bucato” non era l’attrezzo agricolo, ma uno strumento per rimestare il bucato dentro il mastello. Il termine dialettale tusé veniva utilizzato anche per indicare un’azione “pesante” nei confronti di qualcuno (essere rimproverati aspramente – soprattutto dai genitori nei confronti dei figli – essere contestati in pubblico, o anche essere derubati, nel senso che, come nel taglio dei capelli, qualcosa veniva sottratto.
[10] Us-ciaza è il dispregiativo di “ostia”, la particola utilizzata nel rito cattolico della comunione.
[11] F. CORTESI, R. CORTESI – Sacro e Profano. La religiosità popolare in Romagna tra reminiscenze pagane e Cristianesimo – Ed. Il Cerchio, Rimini, 2012, pag. 135.