TARXIES
Testi

TARXIES
In questa pagina si trovano lavori di antropologia culturale elaborati per indagare le tradizioni, i miti e le leggende popolari, con particolare riferimento (ma, come si è già detto, non esclusivo) alla Romagna.
Il materiale di partenza sono le tradizioni popolari di questa parte dell’Italia, le fiabe, i racconti, i proverbi ed i modi di dire, ma anche la toponomastica, il dialetto, gli antichi documenti bibliografici ma anche, naturalmente, i lavori più recenti sullo stesso argomento di tanti studiosi e ricercatori.
La figura del drago attraversa tutta la cultura umana, sia nel tempo che nello spazio.
Immagini la cui zoomorfia le fa sembrare apparentate con la famiglia dei rettili ci vengono da tutte le parti del mondo e da tutte le epoche storiche: dai serpenti piumati dell’America Centrale ai draghi che si snodano lunghissimi nel capodanno cinese, dalle teste che ornavano le prue delle navi vichinghe fino ai tanti esempi rappresentati nei dipinti e nei disegni del Medioevo, questo mitico animale sembra aver accompagnato costantemente la vita dell’uomo.
Anche se i fenomeni culturali che oggi li vedono protagonisti si possono ascrivere più a motivi economici che ad un effettivo e convinto mantenimento di un’arcaica cultura folklorica, indubbiamente nel passato il rapporto era completamente diverso: il drago, figura psicopompa dello spirito dell’uomo nei momenti più impegnativi della sua vita[1], spirito tutelare quando non addirittura tutoriale, assunse, col passare del tempo, una connotazione sempre più negativa, fino ad essere identificato come la personificazione terrena del male, elemento focalizzante di una malvagità globale, in un tempo fine a sè stessa ma anche rappresentazione dell’opposizione avversa del destino; la sua sconfitta rappresenterà la vittoria sul male terreno, ma anche il trionfo dell’uomo inteso come centro dell’universo, trionfo della religiosità, soprattutto di quella cristiana sulle antiche e sopravviventi forme pagane.
In Romagna il drago compare quasi esclusivamente nella cultura popolare, soprattutto nelle fiabe e nelle leggende folkloriche[2]; anche in questa area geografica viene evidenziato il suo ruolo tutoriale e di spirito guida dell’uomo nei momenti fondamentali della sua vita, ma soprattutto appare come rappresentante del male, ed in genere in un ruolo secondario, comprimario di altri attori che invece si presentano come i veri interpreti negativi delle storie.
Per trovare notizie di esso in una cultura meno popolare occorre spingersi oltre i territori romagnoli, ed arrivare al bolognese Aldrovandi, che ne parla in suo trattato naturalistico.
Le sue caratteristiche fisiche sono abbastanza universali; fatto salvo l’Estremo Oriente dove la fisionomia assume a volte sembianze più vicine a quelle canine, il drago è rappresentato quasi sempre come un rettile (o comunque come un animale fortemente somigliante a quella famiglia), a volte dotato di corna, quasi sempre di artigli, ha la sua caratteristica principale nel fatto di emettere fiamme e fumo dalle fauci e dalle narici.
Ulisse Aldrovandi e un acquarello, di mano dello stesso autore, raffigurante un drago.
Vive nascosto alla vista degli uomini in caverne difendendo tesori lì celati o nelle profondità di specchi d’acqua; nel primo caso identificandosi in quelle creature ctonie destinate dalla nostra cultura a rappresentare i terrori derivanti dall’oscurità, i cupi rimbombi delle profondità della terra e quindi, per estensione, a rappresentare le forze del male; nel secondo caso si manifesta un collegamento con la demonizzazione del mondo femminile, notoriamente legato alle acque.
Proprio alcune di queste caratteristiche sono una tipica testimonianza del ruolo psicopompo della figura del drago.
L’uomo dell’antichità identificava nelle figure molto lontane dalla sua antropomorfia una figura protettiva, totemica, un tutore dei suoi riti iniziatici[3], in quanto solo una figura a lui molto lontana dava la garanzia di gestire quei fenomeni che possono oltrepassare i limiti tra reale e ultraterreno; e cosa può esserci di più lontano dal nostro mondo di mammiferi di quella forma di vita identificata nella linea evolutiva dei rettili? Certamente quest’uomo antico non aveva conoscenze zoologiche, ma basava questo suo sentire sulle differenze apprezzabili in base alla sua esperienza: la temperatura corporea più fredda della sua, le scaglie al posto della pelle, la mancanza di peli, lo sguardo così diverso dagli altri mammiferi, il morso velenoso.
Inoltre gli attribuiva la capacità di volare, altra caratteristica che distingue il mondo reale da quello ultraterreno, sia per la sua velocità così lontana da quella che può tenere il più veloce degli umani, sia soprattutto per la possibilità di muoversi su tre dimensioni, caratteristica negata a chi deve rimanere ancorato a questo supporto del nostro corpo che è il terreno, ancorché movimentato e tendente verso l’alto. La possibilità di spiccare un balzo e muoversi a proprio piacimento nell’aria può essere sembrato all’uomo una capacità solo di un mondo superiore e dei suoi rappresentanti (non per niente gli angeli avranno le ali).
Ma è soprattutto nel suo rapporto con il fuoco che il drago esprime al meglio il concetto di figura liminare.
Il fuoco come arma degli dei, al pari della folgore che incenerisce, è l’elemento punitivo più terrificante posseduto da forze non umane, ed è proprio l’uomo a fornirgli questa valenza, per l’istintivo orrore che egli prova verso la morte per bruciamento. D’altro canto il fuoco, nel momento in cui il drago diviene forma tutelare (o addirittura tutoriale nel caso delle culture alla cui base legislativa stavano i riti iniziatici) è un’arma contro i nemici dell’iniziando, ma nel contempo sta a ricordare che i riti di iniziazione si superano solo attraverso esperienze al limite della sopportabilità fisica (il dolore del fuoco, l’esperienza orrorifica dell’essere inghiottito vivo) e passando attraverso stati di coscienza extra-corporei (il volo). Ed è sempre con il fuoco che il drago difende il compimento del rito, il raggiungimento dell’obiettivo, il raggiungimento della conoscenza (il tesoro nella grotta). In questo rapporto contrastato con il fuoco l’uomo identifica il suo rapporto altrettanto contrastato con il drago: drago amico e tutore, maestro di saggezza e conoscenza (gli scrittori medioevali attribuiranno ai draghi vite le cui lunghezze si misureranno in centinaia di anni), ma comunque sempre un’entità terribile, potente, con la quale non è lecito scherzare (anche quando si presenta nelle vesti tutoriali si comporta con gli iniziandi allo stesso modo in cui un sergente tratta le proprie reclute) oppure nemico assoluto, verso il quale non si può neppure provare quella stima che a volte si prova nei confronti di nemici coraggiosi, rappresentante di un mondo completamente alieno da quello umano.
Questo aspetto contrastante della figura del drago, ed il relativo rapporto con l’uomo, si mantiene a lungo, fino a quando uno dei due aspetti, quello del nemico, prevale su quello del tutore.
Ciò ha inizio con l’avvento delle prime idee religiose che superano il semplice concetto di animismo e l’uomo comincia a crearsi un pantheon popolato da figure simili alla sua[4]: il dio, il protettore, non è più l’animale totemico ma qualcosa che ha fattezze umane, che assomiglia ad un antenato, ad un padre amato e temuto (come assieme amato e temuto era stato il drago), una figura con la quale è più facile il colloquio e che soprattutto può diventare un modello da imitare.
Il destino del drago è segnato: non gli rimane che l’altra figura, quella del nemico. L’antropomorfia umana dei nuovi dei lo ha ricacciato nel suo ruolo di animale, perciò da questo momento è solo la bestia immonda, l’animale da schiacciare, e se il dio buono con fattezze umane comincia ad avere un suo contraltare quasi umano, il dio del male (non è ancora il diavolo) il drago, in quanto animale, viene ricacciato ad un livello ancora più basso, bestia della Bestia. Se qualche dignità poteva avere come nemico assoluto anche questa viene a perdere nel momento in cui diventa il cane che segue a testa bassa il suo maligno padrone. Questo concetto diventa fondamentale nel mondo antico, e troverà più tardi la sua espressione più eclatante, universale, nella leggenda di S. Giorgio contro il drago.
Contemporaneamente a questi fatti altri grandi mutamenti stavano avvenendo nelle società umane.
Dopo una prima fase di gestione patriarcale del potere, dovuta alla maggiore forza fisica degli uomini, ed una seconda di matriarcato imputabile invece ad un presunto potere soprannaturale delle donne legato al fenomeno della maternità, gli uomini ritornavano al potere[5].
In questa opera di riconquista la battaglia contro le donne diventa un’opera di demonizzazione di tutto ciò che ha un legame con le attività femminili; la donna ed il dio malvagio non vengono identificati nella stessa immagine (operazione che sarebbe risultata impossibile dato il diverso piano di esistenza delle due figure) ma si procede ad una sorta di creazione di una logica dove vale l’equazione: azioni femminili = azioni demoniache.
E perciò se la donna ha frequentazioni con il dio malvagio ne ha anche con i suoi servi, e quindi con il drago (o con il serpente); e ancora se topos tipico delle donne è tutto ciò che attiene all’acqua, alle fonti, simbolo di fertilità, ecco quindi il drago (o il serpente) vivere nelle pozze d’acqua; quando la donna diventa strega parti del suo corpo sono tipicamente da rettile o da animale acquatico, che ella tende a celare sotto le vesti, oppure può trasformarsi completamente in rettile (o in sirena) quando viene a contatto con l’acqua, specie se acqua benedetta.
E’ da ciò che nasce quella figura ormai dimenticata della cultura popolare romagnola che è La “anguana” (o aguana, o inguana)[6].
Essere a metà tra la donna ed il serpente, vive nelle zone umide e per questo la sua immagine veniva probabilmente utilizzata dai contadini per tener lontano i figli dal pericolo rappresentato dagli specchi d’acqua delle campagne (stagni, maceri per la canapa, fossi).
Una sirena bicaudata, una delle tante immagini riferibili al concetto del drago
Presentate anche come ninfe delle fonti o come custodi di corsi d’acqua e di fiumi la loro figura non è sempre e solo malvagia, dato che a volte si innamorano degli uomini ai quali finiscono per insegnare segreti conosciuti solo a loro, in particolare le tecniche di lavorazione del latte e del formaggio. In ciò si identifica un
ruolo tutoriale molto simile a quello visto nel caso del drago.
L’anguana è presente in tutto il Nord dell’Italia fino alla Romagna (con lo stesso nome o con piccole varianti, come le Aganis friulane, le Ganne del trevisano), quasi che la nostra regione fosse l’estrema propaggine dell’area di diffusione culturale di un mito legato alle acque e che trova, in effetti, nell’aspetto idrografico romagnolo una giustificazione a tale diffusione.
Figure simili sono presenti in tutta l’area europea celtica.
Lo spirito delle acque che divora le persone viene chiamato Kelpie in Scozia, e Aughisky in Irlanda.
In realtà viene anche fatto un tentativo di recuperare un rapporto più corretto (se non addirittura più amorevole) tra uomo e donna.
Con il mito di Melusina[7] si tenta di far rivivere un rapporto più rispettoso di ruoli coniugali paritari, e di riportare il vivere comune dei due sessi a quella forma cooperativa che, secondo l’antropologa Maria Gimbutas, doveva essere stato lo scenario di una certa parte dell’antico mondo mediterraneo. Questa fase, che l’antropologa rumena definisce “gilanica” non riuscirà a reggere, e la demonizzazione della donna continuerà nei secoli; Melusina verrà sconfitta e l’immagine femminile più propagandata sarà invece quella di Lilith, donna nemica dell’uomo, donna-serpente, donna-vampiro, pronta ad uccidere anche i propri figli[8].
Ma quale idea, quale associazione mentale può aver fatto scaturire nell’uomo l’immagine del drago? Poteva esistere, nello stesso periodo cronologico in cui esisteva l’uomo antico, un animale con caratteristiche tali da indurre quell’immagine?
I paleontologi e gli studiosi dell’evoluzione ci assicurano che nonostante siano state trovate, tra i grandi sauri (che sono gli animali che più rimandano ai draghi) tracce di reperti fossili che ci fanno ritenere per alcuni di questi la capacità di emettere sostanze caustiche dalla gola, la loro epoca e quella dell’uomo non sono state coincidenti.
Potrebbe invece essere molto più verosimile che l’idea sia nata da osservazioni incomplete, da considerazioni parziali su eventi non spiegabili, le quali possano aver fornito materiale per la creazione di un mito.
Un po’ come sembra sia successo per i ciclopi, che gli esperti di paleozoologia ipotizzano essere nato dall’esame di crani di elefanti di razza nana, presenti nell’Italia del Sud fino al paleolitico, ed il cui cranio fornito di un grosso foro nel punto in cui si innestava la proboscide sarebbe parso, agli abitanti di quelle zone, come un enorme teschio dotato di una sola cavità orbitale.
Per quanto riguarda il drago la prima ipotesi che viene in mente è che l’idea possa essere nata dall’osservazione di grossi rettili, dei quali non si riusciva a vedere mai l’intero corpo: le fauci spalancate, l’incedere sinuoso del corpo, la pelle squamosa, il fatto che i rettili riescano a scomparire rapidamente dalla vista grazie alla loro velocità ed al modo silenzioso di procedere, tutto ciò potrebbe aver indotto l’idea di un essere non di questo mondo, con capacità inusuali, tra cui quella di volare.
Lo studioso lituano Jorgis Baltrusaitis prospetta un’altra ipotesi[9].
L’immagine del drago potrebbe essere stata indotta dall’osservazione di vecchie monete (si tratta perciò di un’ipotesi che pone il momento della nascita di questo mito in un periodo abbastanza tardo) in cui fossero rappresentati cavalli con le zampe anteriori sollevate rispetto al resto del corpo. L’antichità delle monete avrebbe fatto sì che le zampe posteriori, più sottili di quelle anteriori, si consumassero più rapidamente, lasciando sulle monete un’immagine in cui la parte anteriore (zampe sollevate come artigli, criniera scomposta da sembrare una fiamma) sfuma verso una parte posteriore quasi filiforme, come una sottile coda di rettile.
Chi scrive può suggerire una terza ipotesi, nata dall’osservazione di alcuni bassorilievi della colonna Traiana.
In essa sono raffiguranti soldati Daci che portano, come insegna della loro legione, una pelle di lupo issata su una picca, la testa fissata con uno stretto bendaggio alla picca stessa. In questo caso le fauci spalancate, la pelle ridotta a brandelli, può dare l’idea di un corpo serpentiforme, a cui il vento conferisce un movimento ondeggiante, e suggerisce in questo modo il senso del volo. Forse può non essere un caso che alcuni reggimenti molto posteriori a questo avessero delle bandiere raffiguranti draghi e assumessero per sé stessi il nome di “dragoni”.
Elaborazione grafica eseguita da particolari della colonna Traiana, che mostra la trasformazione dei vessilli dei Dacia nella figura del drago.
È probabile che se si indagasse nei miti e nei motivi folklorici di paesi anche molto lontani tra loro sarebbe possibile trovare spunti e ipotesi su figure che hanno suggerito il mito del drago, ed altrettanto probabilmente tali ipotesi sarebbero tutte diverse tra di loro. Da ciò scaturisce inevitabilmente una conclusione: il mito è nato in quanto imposto da motivazioni magico-religiose, dal bisogno di una figura tutoriale che aiutasse l’uomo nell’espletamento dei primi riti associativi, arcaica bozza di una posteriore forma politica della società.
Ruolo positivo o negativo che fosse, come abbiamo potuto vedere nello svolgersi della cronologia della sua storia, assolveva comunque ad un ruolo sociale ben preciso; il tentativo di razionalizzare la figura, di trovare un motivo specifico e concreto che ne giustificasse e provasse l’esistenza è dovuto a tentativi assai più tardi che, data l’universalità del fenomeno, ha condotto a ipotesi inevitabilmente diverse le une dalla altre.
Come non si può ascrivere l’idea dell’orco o della fatina all’abito del bambino, che grazie alla luce lunare dall’attaccapanni proietta la sua ombra sul pavimento della camera da letto, ma piuttosto alle sue elaborazioni mentali su un mondo che gli sembra troppo difficile da affrontare, così i nostri orchi e le nostre fatine (e tra questi il drago), sono creati dai nostri bisogni più interiori.
È inutile cercare ombre sul pavimento.
[1] PROPP, J.V.: Radici storiche dei racconti di fate – Torino, Boringhieri, 1979 - pagg. 132,135
[2] BALDINI, E.; FOSCHI, A. (a cura di..) : Fiabe di Romagna – Ravenna. Longo Ed., 1999
[3] VAN GENNEP, A.: I riti di passaggio - Torino, Boringhieri, 1981 - pag. 88
[4] PETTAZZONI, R.: L’essere celeste nelle credenze dei popoli primitivi – Roma , Athenaum, 1922 – pagg. 88,105
[5] GIMBUTAS, M.: Il linguaggio della Dea – Milano, Longanesi, 1980 – pagg. 77,180
[6] CORTESI, R.: Figure dimenticate: l’anguana – su “LA PIÊ”, N° 6 , 2003 – pagg. 273-275; CALVETTI, A.: Antichi miti di Romagna: folletti, spiriti delle acque e altre figure magiche – Rimini, Maggioli Ed., 1987, pag.67
[7] LE GOFF, J.: Tempo della chiesa e tempo del mercante – Torino, Einaudi, 1988 – pagg. 58,63. Per approfondire la figura di Melusina vedere il lavoro “Quadristoria” alla pagina TESTI di questo stesso sito.
[8] BRIL, J.: Lilith, l’aspetto inquietante del femminile – Milano, Ed. di Comunità, 1979
[9] BALTRUSAITIS, J.: Il Medioevo fantastico – Milano, Mondadori, 1979 – pagg. 111-112,118-126