TARXIES
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In questa pagina si trovano lavori di antropologia culturale elaborati per indagare le tradizioni, i miti e le leggende popolari, con particolare riferimento (ma, come si è già detto, non esclusivo) alla Romagna.
Il materiale di partenza sono le tradizioni popolari di questa parte dell’Italia, le fiabe, i racconti, i proverbi ed i modi di dire, ma anche la toponomastica, il dialetto, gli antichi documenti bibliografici ma anche, naturalmente, i lavori più recenti sullo stesso argomento di tanti studiosi e ricercatori.
Fin dai periodi precedenti la cultura latina presso i popoli italici erano presenti figure alle quali veniva demandata la funzione di vegliare sulle messi e sugli animali: erano essi stessi in parte animali, e questa particolare antropomorfia conferiva loro una personalità ed una sensibilità legata alla fisicità, alle esigenze del corpo.
Il mondo antico aveva un rapporto particolarmente intenso con le forze primordiali, e gli uomini non tentavano di reprimere gli istinti naturali, gli istinti dipendenti dalla nostra origine animale; quindi le caratteristiche delle divinità rispettavano questo modo di intendere la vita ed il rapporto con la natura. Il risultato furono le figure silvestri, i satiri, Pan, i personaggi legati ai culti dionisiaci, per rimanere nel mondo greco e latino; Kernunnos, Lug e Tywaz per il pantheon celtico.
Queste divinità svolgevano una funzione di protezione delle pratiche agricole, ma erano nel contempo i ”signori degli animali”: il termine stava a significare che oltre alla possibilità di imporre la propria volontà, ed offrire la propria protezione, a questo mondo, possedevano essi stessi quelle caratteristiche che sono tipiche della vita animale, come l’aggressività, la ferocia, la forza.
Con l’avvento del cristianesimo, e la perdita del ricordo delle figure pagane, da questi ricordi ancestrali finirono per crearsi due diverse immagini: del protettore degli animali rimase l’immagine del dio e della sua benevolenza di tutto il creato, animali compresi, mentre il personaggio feroce ed animalesco finì per cristallizzarsi in una figura che della divinità perse le connotazioni, assumendone di umane.
Nacque la figura dell’uomo selvatico (l’om saibatgh) che viveva nel profondo delle selve rifuggendo la compagnia degli altri, che si vestiva di pelli e di foglie, divorava le persone (specialmente i bambini) tentativo della società di dimenticare la propria parte istintuale e di relegarla in un’area di rifiuto, se non addirittura di oblìo.
Sono rimaste moltissime tracce culturali dell’uomo selvatico: dalle sue rappresentazioni in sagre e feste tradizionali alle citazioni su testi in prosa e poetici, dalle innumerevoli immagini su libri, dipinti in chiese e palazzi privati fino al ricordo in fiabe popolari.
Il dio Dioniso era una delle divinità a cui era demandata, nel mondo pagano, la protezione della natura, intesa soprattutto nella sua ferinità e nell’aspetto libero e selvaggio. Ovviamente questo aspetto non era consono alla morale cristiana.
Oggi questa figura è rimasta solo nel mito e nella leggenda ma, come accade a tante tradizioni, ha rivestito, nel passato, una notevole importanza; basti pensare che il suo ricordo si ritrova in tutte le regioni italiane del nord e centro-nord[1], con nomi anche completamente diversi (l’umìn selvàdich, dulacesa, salvanel, beatrich, l’ommo sarvadzo, sarvanòt, lu ravas, filmo, om salvei, salvaria - nei rari casi in cui appartiene al genere femminile - crapòn, basadonne, bragola, dar Sambinelo, guriut) oltre all’Europa Centrale, dalla Svizzera alla Germania (Wilder Mann) alla Lituania (Pulek) ai Pirenei, ai monti Sudeti, alla Russia (Nasnas,
Una delle tante immagini dell’uomo selvatico, nella rappresentazione tipica che ne veniva fatta in tempi antichi. Il concetto fondamentale era quello di suggerire la sensazione di un essere solitario, per cultura di gruppo o per scelta personale, liberando così la coscienza della comunità dal ricordo di un’azione di allontanamento sociale di gruppi umani sgraditi.
Alma, Chuchuaa) ma anche fuori dall’Europa, come nelle culture dei nativi americani (Sasquatch) in Cina (Ging Sung, Ye Ren) in estremo oriente (Metoh Kangmi, Yowie); lo Yeti tibetano, ed il Big Foot nord americano, che ogni tanto tornano agli onori della cronaca nel giornalismo sensazionalistico, devono la loro origine evidentemente a queste tradizioni.
La figura del Matto in una delle tante interpretazioni dei tarocchi
Ma la cosa non ci deve stupire; presso ogni popolazione c’è stato il tentativo di identificare in una ben chiara categoria tutta quella serie di individui lontani dalla cultura dominante, sia che si trattasse di intere popolazioni considerate ad un livello di civiltà inferiore, sia singoli individui che rifuggivano dalla società organizzata, preferendo una vita più libera e senza imposizioni sociali, anche se più selvaggia e non priva di pericoli; degno di interesse poi, in questa esclusione che affonda le radici in un’egoistica scelta classista, un certo senso di colpa, così da considerare questa categoria sì barbara ed incivile, ma comunque dotata di una certa bontà di fondo, di gentilezza, ed a volte anche di altruismo. La tradizione tramanda infatti che spesso gli uomini selvatici, che si cibavano solo di frutta e latte, abbiano insegnato agli uomini con i quali venivano in contatto l’arte di produrre il formaggio. Sorte analoga capitò ad un’altra categoria sociale, quella di uomini già più inseriti socialmente dell’uomo selvatico, ma comunque fuori dal consesso umano perché definiti strambi, lunatici, solitari, visionari, quelli che poi, sempre a causa della
mania “catalogatrice” dell’uomo, sono stati simbolizzati nella figura del “Matto” dei Tarocchi[2].
In qualche fiaba romagnola si possono trovare alcune di queste figure di uomini selvatici (l’om saibatgh) generalmente abili nelle tecniche agricole, che dopo essere apparsi accanto ai personaggi principali finiscono per ritornare nell’ombra, spesso schivi e delusi, ma è pensabile che in questa regione la lenta trasformazione di questa figura abbia seguito una strada diversa, finendo per essere sovrastata da un altro personaggio, legato all’evoluzione della religione.
Il classico “santino” di sant’Antonio Abate presente nelle case contadine romagnole.
Stiamo parlando di sant’Antonio Abate, il santo più venerato nelle comunità agricole della Romagna (ma anche di altre regioni del nord del nostro paese); stampe che lo ritraggono vestito di un indumento che diventerà poi il saio francescano, circondato da animali tra cui l’immancabile maiale (per il suo rapporto con questo animale in Romagna era chiamato sant’Antoni de’ porc, per distinguerlo da sant’Antonio da Padova, figura, soprattutto dal punto di vista teologico, completamente diversa) non mancavano mai nelle stalle e nelle dispense delle case contadine, a sottolineare la sua funzione di protettore del benessere della famiglia, rappresentato appunto dagli animali e dai prodotti agricoli; il “santino” di sant’Antonio non mancava mai sulle porte delle stalle.
Quando il cristianesimo cercò di far dimenticare i residui del forte paganesimo che si manteneva, specie nelle zone agricole, trovò funzionale a questo intento sovrappose agli dei antichi la figura di sant’Antonio Abate.
Era nato a Koma (oggi Qeman El-Arous, in Egitto) nel 251 d.C., morì il 17 gennaio 635 in una caverna del monte Kolzim, nel deserto tra il Nilo ed il mar Rosso; salvo un breve periodo (nel 338) in cui tornò ad Alessandria d’Egitto per combattere gli ariani, passò tutta la vita nella solitudine del deserto, dedicandosi alla preghiera. La sua filosofia fu lo stoicismo, la negazione del mondo, il disprezzo della vita comoda, ed un’eterna lotta contro le tentazioni del demonio dalla quale uscì vittorioso.
Fu proprio per questa sua spiritualità e disprezzo del mondo fisico che fu scelto per essere contrapposto agli dei pagani, che avevano invece nella fisicità un elemento distintivo; la sua abitudine a vivere in solitudine, circondato solo da animali, lo rese la figura più adatta a sostituire i “signori degli animali”.
In questa immagine (particolare de “La tentazione di Sant’Antonio” di Hjeronimus Bosch, il santo compare in compagnia del solito maiale, e reca sulla spalla destra del saio la lettera TAU, oggi uno dei simboli dell’Ordine Francescano.
Alle funzioni agiografiche tipiche del santo (eremitismo, resistenza alle tentazioni del demonio) si aggiunsero quelle tipiche dei riti propiziatori dell’agricoltura; perciò se nell’antichità verso la fine di gennaio venivano indotte le ferie sementinae (un rito per proteggere le semine) sfruttando la data della morte (il 17 gennaio) il cristianesimo creò una festa durante la quale si benedivano i campi; nella stessa giornata la tradizione voleva che si controllassero le scorte dei raccolti e dei prodotti agricoli conservati, legando in questo modo il concetto della santità di questa figura cristiana con il concetto dell’abbondanza degli alimenti, tipico delle divinità pagane, ma estraneo alla figura originale di sant’Antonio.
Oltre al collegamento con gli animali in genere, ma soprattutto a quello delle pratiche agricole, un’altra tradizione tipica del santo è quella della benedizione dei fuochi; il fuoco avrebbe lo scopo magico, dovuto al meccanismo antropologico della logica simpatico-imitativa, di scaldare la terra e favorire con ciò il ritorno della primavera. In questo aspetto è particolarmente evidente il legame sincretico con il dio celtico Lug, dovuto probabilmente ai popoli celtici convertiti al cristianesimo che trasferirono gli attributi di questo dio a sant’Antonio[3]. Al dio celtico Lug, figlio della dea madre, erano consacrati gli animali, ed in particolare il cinghiale, che rappresentava il ritorno della primavera.
Un discorso a parte merita la presenza della figura del maiale che accompagna costantemente il santo, dato che questo animale, secondo la tradizione cristiana, era considerato impuro; già l’Antico Testamento (Levitico e Deuteronomio) riportava: “ …. Il porco, perché ha l’unghia bipartita ma non rumina, lo considererete impuro. Non mangerete la sua carne …”.
Nel mondo ellenico invece il maiale era considerato simbolo di sessualità[4], ed altrettanto nel mondo latino[5]. Varrone fa notare che le donne chiamavano porcus l’organo genitale femminile, e che anche in greco c’era similitudine tra il termine maiale (hys) e quello che indicava lo stesso organo genitale (hyssax); per greci e romani, però, l’associazione tra maiale e sessualità non aveva niente di perverso o demoniaco, anzi l’animale era considerato un animale sacro, al punto che Catone[6] faceva notare che quel complesso rituale latino che aveva, tra le altre cose, la funzione della benedizione dei campi (suovetaurilia) doveva il suo nome proprio all’associazione dei nomi degli animali sacrificati: un maiale (sus) una pecora (ovis) ed un bovino (taurus). In Grecia il maiale veniva offerto in sacrificio a Demetra.
Sant’Antonio ruba il fuoco dall’inferno approfittando della distrazione del diavolo (qui rappresentato in vesti femminili).
Dall’incontro tra il mondo giudaico e quello greco-romano il cristianesimo riassunse gli aspetti peccaminosi del demoniaco e della sessualità, ma con un atto di equilibrismo dialettico riuscì a superare lo scoglio dell’animale visto come essere impuro: il maiale rappresentava il peccato, ma il santo
aveva resistito alle tentazioni del demonio, perciò l’animale veniva redento da questo atto e non si doveva più considerarlo impuro. Si trasformò, inoltre, il cinghiale di Lug in un maiale per rendere ancora più lontana l’idea del dio celtico; inoltre il maiale è l’animale utile per eccellenza, del quale si può utilizzare tutto (dalla carne alle setole) e quindi bene si prestava a rappresentare l’immagine dell’abbondanza per la civiltà contadina.
Questa trasformazione, del cinghiale in maiale, ebbe bisogno di un po’ di tempo per realizzarsi, se è vero che alcuni dipinti (uno del Pisanello e l’altro di Antonio Tempesta) mostrano ancora un sant’Antonio in compagnia di un cinghiale.
Altro elemento sincretico con il mondo celtico potrebbe essere quello relativo alla lettera tau che compare sulla veste del santo tale lettera, resa più tardi con quella latina T, ha sempre indicato le persone scelte da Dio per azioni particolarmente virtuose, e venne utilizzato dal cristianesimo come simbolo di redenzione. Oggi è diventato uno dei simboli dell’Ordine Francescano. Secondo alcune ipotesi potrebbe derivare dalla runa tyr (identificativa del colore rosso) che identifica il dio celtico Tywaz, dio del rinnovamento della natura; ma potrebbe derivare anche da un simbolo molto simile, usato presso gli antichi egizi, visto il paese di nascita del santo.
Un altro collegamento sincretico, questa volta con il mondo greco-latino, è quello con Prometeo: anche sant’Antonio, infatti, donò il fuoco agli uomini, rubandolo però al demonio anziché agli dei dell’Olimpo (il sincretismo è più che evidente); legato a questo suo potere sul fuoco dell’inferno sarebbe la capacità di sant’Antonio di guarire l’herpes zoster, il cosiddetto “fuoco di sant’Antonio”. In alcuni paesi si festeggia ancora il santo con falò di legna che deve essere necessariamente ottenuta mediante una questua, in quanto, in questo modo, ci si sottopone ad un atto di penitenza.
La battaglia tra paganesimo e cristianesimo si concluse naturalmente con la perdita della memoria delle antiche figure pagane, ma per nemesi storica anche la figura dell’eremita egiziano si è sempre più perduta nel tempo: la maggioranza dei contadini romagnoli ha finito per immaginare (e probabilmente lo crede ancora) sant’Antonio Abate come un frate francescano, con uno spirito solitario ma bonaccione, nato in qualche parte dell’Italia, e considerato protettore degli animali probabilmente perché ha passato tutta la vita, nel suo convento, ad occuparsi di stalle, maiali, polli e galletti.
[1] In Italia la tradizione è centrata principalmente nell’arco alpino, per evidenti motivi legati alla struttura del paesaggio ricco di boschi, ma se ne trovano tracce fino alla Toscana. In Romagna, come dimostra la sua presenza in alcune fiabe popolari, è noto come l’om saibatgh.
[2] Lo scrittore francese Antonin Artaud, nel suo Les nouvelles revelations de l'Etre, identificò molto bene il carattere di questo tipo di uomo messo al bando dalla società, chiamandolo "solitario, disperato e saggio".
[3] Ipotesi indagata particolarmente dall’antropologa Margarethe Reinschneider.
[4] Aristotele, Historia Animalium.
[5] Marco Terenzio Varrone, De re rustica.
[6] Catone, De Agricoltura.