Indagine antropologica di un antico fenomeno religioso e sociale

Un fenomeno tipicamente medioevale (ma che, come vedremo, esiste tutt’ora) fu quello dei “penitenti”, individui che, per una personale interpretazione della religiosità (e soprattutto dei metodi per redimere, agli occhi di Dio, i propri e gli altrui peccati) ricorrevano a rinunce corporali e, successivamente, a forme penitenziali e pratiche di autopunizione corporale cruenta.

Fu, forse, un’imitazione un po’ troppo spinta di quanto faceva San Francesco d’Assisi, che iniziò la propria attività religiosa (come egli stesso ebbe a dire) “facendo penitenza”; fu sempre Francesco che diede una regola a tutti coloro che, pure non votandosi completamente alla vita religiosa, si dedicavano ad attività penitenziali, fondando con ciò l’ordine dei Terziari Francescani, conosciuti appunto come “fratres tertii ordinii sancti Francisci nuncupati de la penitentia”.

La storia ci ha tramandato il ricordo di molti di questi gruppi, da quelli forse più famosi, i “disciplinati” (o “disciplini”) di Bergamo, laici riuniti in congregazioni e confraternite che si sottoponevano ad una vita di preghiera e di penitenza (tra le quali privilegiavano le autoflagellazioni, con ciò sostenendo di voler ripetere e provare sul proprio corpo le stesse sofferenze patite da Cristo nella sua passione) fino alle innumerevoli corporazioni dei “flagellanti”, che portarono questa pratica all’esposizione pubblica.

Tra gli ordini che praticarono, soprattutto nel passato, questa forma di penitenza si ricordano i francescani, i cluniacensi, i camaldolesi.

Si ritiene che l’origine del fenomeno risalga al XIII secolo, come uno dei rami nei quali andarono evolvendosi i movimenti pauperistici: l’eremita francescano Raniero Fasani (morto nel 1281) influenzato, sembra, dalla dottrina di Gioacchino da Fiore, fondò a Perugia il primo gruppo di flagellanti, la “compagnia dei disciplinati di Cristo”; il movimento si diffuse con grande rapidità in tutta l’Italia, nonché all’estero, particolarmente in Germania, in Polonia ed in Boemia.

Gli storici identificano i motivi di questa interpretazione della religione e della penitenza nel particolare periodo storico e nel disagio spirituale che segue inevitabilmente quello materiale: la difficoltà della vita, le guerre, le malattie, le pestilenze, venivano viste come una punizione divina dei peccati dell’uomo. Era necessario chiedere perdono a Dio, e poiché sembrava che le semplici preghiere e gli usuali riti religiosi non fossero sufficienti, l’unica soluzione era quella di ricorrere a forme più “concrete” per mostrare la propria contrizione.

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Quando poi, tra il 1347 ed il 1353, dilagò la Peste Nera, uccidendo almeno un terzo della popolazione europea, il fatto venne visto come una conferma della maledizione divina, accentuando enormemente il fenomeno; e questo nonostante si cercasse, come succede sempre nel caso di grandi disastri, un capro espiatorio in una minoranza etnica. Come altre volte nel corso della storia dell’umanità, anche in questo caso il ruolo toccò agli ebrei, accusati di avvelenare pozzi e spargere la malattia introducendosi nelle chiese cristiane per contaminare panche, muri ed arredi religiosi[1].

Il movimento dei flagellanti assunse, in quei periodi, un rilievo europeo: oltre ai paesi prima ricordati il fenomeno si spinse anche in Francia, in Ungheria ed in Olanda; vengono ricordate dagli storici processioni che contavano decine di migliaia di partecipanti, e la partecipazione della gente assumeva aspetti parossistici, molto lontani dal concetto cristiano di partecipazione religiosa.

Questo fatto preoccupò notevolmente la Chiesa.

Già da tempo in lotta con movimenti ereticali, le autorità ecclesiastiche interpretarono il fenomeno dei flagellanti come una rivolta millenaristica ai dettami cristiani e, in alcune particolari celebrazioni, vide in queste un aspetto troppo simile alle manifestazioni tipiche delle dottrine catare.

Ci fu un divieto alle processioni dei flagellanti già nel 1258, promulgato da papa Alessandro IV, riconfermato poi nel 1349 da papa Clemente VI, ai tempi della Peste Nera.

Nonostante ciò le confraternite dei penitenti non cessarono la loro attività, sostenuta favorevolmente dall’approvazione del popolo; nel 1400 processioni di penitenti e flagellanti percorse l’Emilia e la Romagna, procedendo da Parma e spostandosi fino a Forlì.

La storia ricorda[2] come una processione di più di ventimila penitenti arrivasse in questa città, portando con sé una pestilenza che provocò morti e distruzione.

Fu un fatto eclatante che costrinse la Chiesa, con il Concilio di Costanza del 1417 a rinnovare il divieto di questa pratica, ancora una volta senza esito.

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Bisogna però notare che a Forlì il fenomeno si presentò in modo diverso da quello classicamente definito “penitenziale”.

Innanzitutto l’origine del fenomeno nella città romagnola era diverso da quello originato da Raniero Fasani: i penitenti, qui denominati “battuti”, iniziarono le loro attività già nel 1252 (quindi prima della confraternita fondata a Perugia dal Fasani) e sebbene alcuni gruppi praticassero l’autoflagellazione, tale pratica cadde presto in disuso, sostituita da attività caritative.

In città esistevano almeno sei diverse confraternite, con vocazioni diverse: i battuti cosiddetti Bianchi si distinguevano per dedicarsi all’assistenza dei fanciulli abbandonati, i Bigi assistevano poveri e pellegrini, i Celestini erano impegnati a procurare la dote alle fanciulle povere, i Neri (detti anche la “confraternita della morte”) si occupavano di dare sepoltura a coloro cui la famiglia non potesse provvedere,  i Rossi si dedicavano all’assistenza dei poveri e dei malati, i Verdi assistevano pellegrini e viandanti[3].

Con queste attività il nome di “battuti”, con il quale continuarono ad essere identificati gli aderenti alle confraternite di carità, venne sempre di più inteso principalmente nel significato di “afflitti”, in quanto rimanevano, comunque, persone dedite alla penitenza.

Se l’indagine storica individua l’origine del fenomeno nel particolare  momento  sociale  di  quei  periodi,  per molto tempo  la

sociologia ne ha studiato l’aspetto psicologico mettendo in evidenza esclusivamente la prospettiva patologica. E’ stato usuale ritenere queste pratiche come una forma di autolesionismo, volto non tanto a mettere fine alla propria esistenza, quanto a ricercare attenzione da parte degli altri, o ad un modo per alleviare una situazione di inconscio malessere personale, un modo per alleviare un disagio psichico sovrapponendovi un dolore fisico, comunicando contemporaneamente agli altri una situazione di anormalità della quale si chiede una conferma sociale[4].

Ciò che se ne ricava è un sollievo psicologico e, a quanto ci dice la medicina, la pratica fisica dell’autolesionismo è anche un metodo per cercare sollievo al dolore, grazie alla generazione delle endorfine beta, oppioidi endogeni rilasciati dal sistema nervoso all’atto della lesione, che agiscono come un antidolorifico naturale.

La medicina ha spesso messo l’accento sull’aspetto dell’anomalia patologica, indicando che, solitamente, gli individui che soffrono di anomalie mentali (come il disturbo bipolare, la depressione, le fobie, la schizofrenia) è più portato a praticare l’autolesionismo. In questo caso l’autolesionismo viene descritto dai medici come uno stato di dissociazione e di depersonalizzazione.

Studi successivi hanno però mostrato che l’autolesionismo non è necessariamente legato a disturbi mentali o, per lo meno, non è necessariamente inquadrabile in una vera e propria “malattia mentale”, e che gli stessi fenomeni di autopunizione non sono necessariamente legati all’autolesionismo.

Favazza e Rosenthal[5], dopo avere analizzato centinaia di studi e documentazioni storiche (anche nel lontano passato) proposero una suddivisione del fenomeno delle automutilazioni in due categorie: “patologiche” e “culturali”.

Mentre le prime sono quelle che hanno a che fare con un vero e proprio stato mentale alterato, le seconde sono dovute ad una particolare interpretazione e visione etico - filosofica delle proprie tradizioni culturali, che si trasmette all’esterno mediante la creazione di un “simbolismo personalizzato”.

In questo secondo caso si può manifestare la propria visione del mondo attraverso mutilazioni tutto sommato poco cruente, come tatuaggi, piercing nelle più svariate parti del corpo,  creazione volontaria di cicatrici, scarificazione[6]: sono generalmente di tipo “estetico”, e riflettono, fortunatamente, mode passeggere (i due autori le hanno definite “automutilazioni pratiche”);  significato più profondo invece sono le mutilazioni culturali di “tipo rituale” (come Favazza e Rosenthal chiamano appunto le autoflagellazioni) in quanto riflettono le tradizioni sociali e religiose più antiche e profonde di una determinata cultura.

In questo caso il collegamento con l’autolesionismo vero e proprio è molto più stretto.

Pur d’accordo con le analisi storiche e sociologiche del fenomeno, ed in particolare grati a Favazza e Rosenthal per aver chiarito l’importanza che assume nel fenomeno stesso la presenza della tradizione, riteniamo comunque che la semplice affermazione che queste pratiche “riflettono le tradizioni sociali e religiose” meriti un’analisi più approfondita, per la quale occorre fare riferimento al significato antropologico di “sacrificio”[7].

Secondo la logica del “sacrificio rituale” l’uomo antico interpreta questo rito sia come forma di “gratitudine” nei confronti della divinità per favori a lui concessi, sotto forma di “restituzione” di beni della natura,  sia come una forma di autopunizione nel caso in cui la società abbia violato le leggi sociali.

Gli oggetti sacrificati erano, per il concetto stesso di restituzione, beni che gli uomini utilizzavano sottraendoli alla natura per il proprio uso (animali, parte del proprio raccolto) fino all’immolazione di uomini.

Il cristianesimo fa propria questa interpretazione del sacrificio, arrivando, con Cristo, alla più alta forma di sacrificio, quella della propria autoimmolazione. Cristo offre a Dio il più grande dono possibile, la propria vita, per redimere i mali dell’intera umanità.

I sacerdoti cristiani diffondono, con la loro predicazione, questa caratteristica fondamentale della loro religione; la diffusione di questo messaggio è una delle funzioni più importanti, probabilmente la più importante tra le loro attività pastorali; svolgono poi anche altre attività, tipiche del loro ministero, per le quali sono stati incaricati in maniera ufficiale dalle gerarchie ecclesiastiche.

Quelli che, invece, desiderano dedicare la propria vita alla diffusione del messaggio cristiano non avendo però ricevuto nessun incarico ufficiale (e non potendo quindi amministrare sacramenti) trovano il modo di esprimere la propria vocazione in un unico modo possibile: la diffusione del messaggio salvifico di Cristo non attraverso la predicazione (per la quale non sono stati autorizzati) ma direttamente con l’esempio del sacrificio del figlio di Dio, utilizzando il proprio corpo, in maniera simbolica, come la diretta immagine di Cristo. 

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Particolare di un manifesto murale che ricorda l’avvento della festività dell’ Ashura  in un paese dell’Africa islamica.

Poiché non possono arrivare al sacrificio estremo (anche perché potrebbero farlo una volta sola), l’esempio più alto che possono dare è quello della sofferenza a cui Cristo è stato sottoposto, riversando sul proprio corpo le stesse flagellazioni patite da Cristo, oppure mediante il trasporto di pesanti croci come lui ha fatto, o percorrendo la strada sulle ginocchia a significare i suoi ultimi passi. 

Proprio per questo motivo le pratiche di autoflagellazione si sono diffuse particolarmente tra i Terziari, che non possono somministrare i sacramenti, e nella gente comune; non è un caso che i santi protettori dei  penitenti  appartengano  sopratutto  a  questi ordini,

come San Vincenzo Ferrer (1350 – 1419) religioso e predicatore apocalittico, San Corrado Confalonieri (1290 – 1351) terziario francescano, fino al più importante, quello a cui si rivolgono la maggior parte delle congregazioni dei flagellanti: San Rocco di Montpellier (1346 – 1379) terziario francescano, pellegrino e taumaturgo francese.

In Italia l’autoflagellazione in pubblico è praticata ancora, ad esempio in occasione delle processioni dei “vattienti” a Nocera Terinese, dei “battenti” a Verbicaro, dei “battenti” di Guardia Sanframondi, anche se la chiesa ufficiale è piuttosto critica nei confronti di tali pratiche[8].

Altrove è diffusa soprattutto nei paesi di cultura latina (Spagna, Portogallo ed in quasi tutti i paesi sudamericani).

A dimostrazione di come questo fenomeno attinga da comportamenti molto antichi, va ricordato che manifestazioni analoghe si riscontrano anche in culture non cristiane, come l’Ashura di alcuni paesi islamici (festività religiosa che cade nel decimo giorno del mese lunare di muharram, secondo quel particolare calendario)  o il Kryta Yuga della cultura indù.

[1] Bisogna dire che, a riguardo delle accuse contro gli ebrei, si assistette ad una loro inaspettata difesa da parte delle più alte autorità ecclesiastiche cristiane. Già nel 1348 papa Clemente VI definiva “inconcepibili” le accuse che gli ebrei diffondessero la peste, e pose gli stessi sotto la protezione della chiesa, non sempre riuscendo, comunque, a salvare dalla morte molti di questi sventurati.

[2] Girolamo Fiocchi: Chronicon  foroliviense, in S. Spada, Dismarie, Personaggi e storie nella Forlì del Quattrocento, Foschi Edit. Forlì 2009.

[3] L. Tartari: Gli “hospitalia” in epoca medievale; il caso di Forlì – in Ravennatensia, XIX, 1997; L. Tartari: Gli oltre sette secoli degli Orfanatrofi di Forlì. Storia e memoria di una realtà locale – Forlì 1999; F. Zaghini: Le istituzioni caritative nella diocesi di Forlì, in Ravennatensia, X (1979).

[4] Klonsky, E.D.; The functions of deliberate self-iniury: A review of the evidence – Clinical Psychology Review, N.Y. 2007.

[5] Favazza, A.R. -  Rosenthal, R.J.: Diagnostic issues in self-mutilation – Hospital and Community Psychiatry (A.P.A) 1993.

[6] La scarificazione è il modo di creare dei “disegni” sulla propria pelle mediante le cicatrici che permangono dopo la guarigione di ferite, generalmente autoinferte. Alcune etnie dell’Africa “migliorano” il risultato di queste operazioni mediante l’inserimento di pigmenti colorati nella carne viva della ferita. Ricadono in questa categoria anche le cicatrici risultanti dalle bruciature che alcuni giovani di cultura occidentale si autoinfliggono con l’estremità accesa delle sigarette. Per quanto riguarda il piercing occorre notare la differenza antropologica tra l’uso che ne fanno alcuni gruppi giovanili e quello, più antico e socialmente significativo, di gruppi etnici asiatici ed africani.

[7] L’argomento è stato già trattato anche in: Il rapporto con le divinità: paura, parita’ o felice sottomissione? presente su questo stesso sito.

[8] L’atteggiamento della Chiesa Cattolica è abbastanza variegato e complesso a questo riguardo, essendo meglio disposto ad accettare punizioni inflitte in maniera non pubblica (come nel caso degli aderenti all’Opus Dei) e, soprattutto, in forme non particolarmente cruente.