Quando il sentimento popolare è forte il rito può cambiare, ma non i suoi significati profondi. In Romagna si è passati dai pasquaroli al carnevale.

Nell’idea più comunemente diffusa il termine “tradizione” coincide con quello di “staticità”; i fenomeni culturali legati a tempi antichi richiamano alla mente qualcosa che, partendo dal passato, è rimasto immutabile nel corso degli anni. 

In realtà non è proprio così, perché anche le tradizioni, come tutti i fenomeni sociali, hanno una loro evoluzione; ne è un esempio il dialetto romagnolo che, evolutosi nel tempo, oggi utilizza vocaboli che non erano presenti cinquant’anni fa, e questi ultimi erano anch’essi diversi da quelli che si usavano un secolo prima[1].

Lo stesso succede nella ritualità dei fenomeni legati alla tradizione: generata da un’esigenza sociale (un bisogno, un ricordo, la necessità di compattazione del gruppo civile, un’istanza religiosa) si manifesta in atti collettivi che cambiano con il cambiare dei tempi, dei mutati rapporti parentali - o, più prosaicamente, commerciali, -  dello stile di vita  (abbondanza o meno di risorse alimentari, scolarità più o meno diffusa).

Si è già trattato dell’origine di un fenomeno tradizionale romagnolo, come quello dei “pasquaroli”, mostrando come questo fenomeno, legato alla necessità di fornire leggi sociali, sia una derivazione di quell’antico rituale magico – religioso che, partendo dall’idea che i morti possano ritornare sulla terra (fenomeno noto come “corteo dei morti”), forniva ai capi delle antiche comunità di quel tempo lo strumento per imporre, mediante la paura di questi cadaveri viventi, una prima sorte di leggi popolari che permettevano la sopravvivenza del gruppo.

Qui ricorderemo il fenomeno solo in maniera succinta[2].

Il concetto era molto semplice:  si credeva che i morti, a scadenze fisse,  ritornassero sulla terra per punire chi non si era comportato bene; la punizione consisteva nel trascinare il malcapitato nelle profondità della terra, luogo visto allora come un mondo di  solitudine e  tristezza, più che di  tormenti.

corteo morti Basel 1569

Un’immagine dei morti ritornanti in una rappresentazione svizzera del 1569.

Ritualizzatosi, questo fenomeno è passatoattraverso i secoli assumendo forme sempre diverse: dalle danze di figuranti che imitavano i morti ritornanti comandati da un capo-branco (come in certe culture africane, dove il rito era riscontrabile ancora qualche decennio fa) alle espressioni pittoriche della “danza macabra” di tanta cultura europea, dal  corpus  delle  leggende  popolari  (“caccia selvaggia” in area centroeuropea, “corteo dei popoli delle colline” in area anglosassone) fino alle tradizioni attuali (dai “pasquaroli” romagnoli ad Halloween, passando tra le infinite variazioni presenti in quasi ogni paese).

hellequin

Il personaggio di Arlecchino (nome originato probabilmente dall’alto germanico Helle Quenn) veniva considerato uno dei capi della masnada dei morti, e quindi raffigurato, come in questo caso, in combutta con il demonio.

I punti sui quali punteremo l’attenzione, per verificare come anche le tradizioni cambino aspetto, sono tre:

1) I comportamenti esecrati in questa fase antica del fenomeno erano particolarmente gravi: riguardavano la violenza verso i propri simili (omicidi, aggressioni, ferimenti), atti contro la proprietà (furti), atti contro la coesione sociale (mancanza di partecipazione alla vita sociale, adulteri[3],  egoismo).

2) La punizione veniva inflitta da personaggi non appartenenti al mondo reale. I morti ritornanti venivano da un mondo a metà strada tra quello reale e quello dell’al di là, erano rappresentanti di entità superiori, spirituali: erano, in definitiva, la longa manus degli spiriti creatori del mondo.

3) Il luogo dove scontare la punizione era il mondo degli inferi (a questo punto dell’evoluzione della società il termine va inteso come “mondo inferiore, sotterraneo” – dal latino inferior – anche se questo termine ha successivamente fatto nascere il termine “inferno”).

Questi tre aspetti ne facevano un fenomeno che trascendeva la volontà dell’uomo; si trattava di un codice legislativo imposto da essere superiori, portato a termine, nel suo aspetto punitivo, da persone che, come abbiamo visto, appartenevano ad un mondo non-umano, anche se giustificato dalla sua necessità sociale dai rappresentanti del potere (capi tribù, sacerdoti, sciamani); va da sé che questi ultimi, convinti o meno dell’origine divina del fenomeno, lo accettavano e facevano di tutto perché venisse rispettato, proprio perché si rendevano conto della sua utilità sociale.

Si trattava, in definitiva, dell’unico corpus legislativo esistente, ed il fatto che venisse da entità superiori lo poneva al di sopra di ogni possibile contestazione: porre obiezioni a questo codice avrebbe significato contestare l’essenza stessa del principio di dio.

Con la successiva strutturazione della società in forme più complesse, le leggi vennero espresse attraverso strumenti meglio organizzati; non si lasciò l’interpretazione dei giusti comportamenti ai riti della tradizione, ma si cominciarono a promulgare, da parte dei rappresentanti del potere politico, veri e propri editti sui comportamenti sociali (anche in forma scritta, appena fu possibile); da parte sua le autorità religiose fecero lo stesso con le leggi riguardanti il rapporto con le divinità e le questioni relative.

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Una vecchia immagine dei pasquaroli romagnoli, residuo locale del fenomeno rituale dei morti ritornanti.

A questo punto non era più necessaria la paura dei morti per imporre un comportamento corretto (anzi le tradizioni relative a questi riti furono aspramente combattute dalle strutture delle varie religioni[4]): codici e catechismi avrebbero dovuto essere in grado di regolamentare completamente la vita degli uomini.

Abbiamo detto “avrebbero dovuto essere in grado di regolamentare completamente la vita degli uomini”, perché in realtà non era affatto così; rimanevano dei comportamenti che non erano regolati da questi codici, comportamenti che la gente continuava a ritenere inadatti ad una perfetta convivenza sociale, ma che per il loro carattere tipicamente personale, e per il fatto che non influivano negativamente in ciò che le leggi classificavano come “comportamento civile”, non potevano essere perseguiti dalle leggi, civili o religiose esse fossero.

Ci riferiamo ad abitudini come quelle di matrimoni tra persone di età molto diversa, ovviamente non punibili dai codici ma che, nella mentalità corrente, erano malvisti (un matrimonio del genere usualmente non generava figli, sottraendo così forza lavoro alla società, e la caricava dell’onere di sostenere persone anziane senza discendenti); agli adulteri o i coniugi traditi non ufficializzati (che non era punibili proprio perché “non ufficiali” ma che producevano disgregazione nel corpo sociale); alle differenze di ricchezza tra ceti sociali (la legge non poteva punire chi era ricco, ma per il popolo comune questo fatto era comunque un’ingiustizia).

Il risultato di ciò fu il permanere di un giudizio morale contro questi atteggiamenti che, se non erano punibili dai codici, per lo meno potevano essere additati al “pubblico ludibrio” con un rito che fondamentalmente era lo stesso di quello dei “morti ritornanti”, ma in questo caso gli attori della ritualità ed il tipo di giudizio veniva a porsi ad un livello meno spirituale.

Stiamo parlando di quei fenomeni, noti in antropologia come charivari, e che popolarmente, ed a seconda dei luoghi in cui avvenivano, erano noti come scampanate, scornaccie, capramarito, ciambelleria ecc…[5] che prevedevano, in certe sere dell’anno, che una moltitudine di persone si recasse sotto le finestre dell’abitazione dei “colpevoli” creando trambusto con il suono di corni o percuotendo pentole e altri oggetti, indicando così pubblicamente chi erano le persone oggetto del rito.

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Un’ immagine di una “scampanata” in Inghilterra (in quel paese definito “skimmington”) nell’illustrazione dell’artista inglese Charles Hogart.

In Romagna era la cosiddetta “sera dei becchi” (termine romagnolo per i mariti traditi). Se proviamo a confrontare questo comportamento con quello della ritualità dei morti ritornanti, particolarmente dal punto di vista dei tre aspetti analizzati

precedentemente, ci accorgiamo immediatamente delle differenze:

1) I comportamenti esecrati adesso erano meno gravi dei primi, dato che per quelli gravi c’era la legge. Riguardavano la moralità, e non i delitti veri e propri.

2) La punizione veniva inflitta da personaggi comuni, dagli abitanti del paese; non c’era la pretesa di rappresentare entità divine, ma solo la società civile.

 3) Il luogo della punizione (che tra l’altro era soprattutto una “derisione” più che un atto punitivo vero e proprio) avveniva in questo mondo, adesso, e non dopo la morte.

Come si può vedere, si trattava ora di un atteggiamento che si era completamente laicizzato, non avendo nulla a che fare con dettami religiosi, anche se il concetto fondamentale rimaneva sempre quello: per mantenere sana la collettività si additavano pubblicamente coloro che non si comportavano bene, nella speranza che potessero ravvedersi ed adeguarsi alle regole della società.

Ci troviamo cioè di fronte ad un primo mutamento di una tradizione che, pur cambiando ritualità, continuava a mantenere i suoi principi di fondo; ma non è il solo mutamento, perché se la società continuava ad evolversi nella strutturazione sociale, lo stesso avveniva anche per il senso di appartenenza alla società, nella valutazione dell’evoluzione sociale stessa e, soprattutto, in quella delle sue regole; la gente cominciò a rendersi conto che leggi e codici sembravano emanati per favorire i privilegiati, i ricchi, i nobili, e che la diseguaglianza sociale, che era uno di quei comportamenti esecrati dal charivari, veniva disattesa proprio dal potere e dai suoi rappresentanti.

A questo punto i colpevoli, coloro che impedivano il compiersi di una società giusta, non erano soli i singoli “reprobi”, ma lo era tutta la classe al potere, politica e religiosa.

La ritualità subì allora un’ulteriore modifica, che poneva l’indice soprattutto su queste classi detentrici del potere (chi si comporta ingiustamente attraverso l’imposizione di leggi ingiuste è stato, da sempre, considerato più colpevole del singolo cittadino che infrange quelle stessi leggi): fu il momento della nascita delle “feste dei folli”, antenato  dell’odierno  carnevale.

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Una tipica” festa dei folli” in un’illustrazione medievale. E’ presente anche l’albero della cuccagna.

Con questo  rito  si  era  persa  la  speranza che i colpevoli si ravvedessero, dato che troppo potente era la struttura al potere per sperare che la semplice derisione dei comportamenti scorretti potesse condurre ad una trasformazione del corpo civile verso una società più giusta; rimaneva unicamente la visione ideale verso un capovolgimento   generale  del  mondo, attraverso l’idea di un rovesciamento globale dei ruoli (il mascheramento attraverso i costumi) che faceva dei ricchi i diseredati, e dei poveri i nuovi ricchi. L’albero della cuccagna, nato in questa fase dell’evoluzione del rito, rappresentava il raggiungimento ideale di questa meta attraverso l’immagine di ciò che più rappresenta la differenza sociale (il possesso del cibo in maniera esagerata); i tre punti precedentemente analizzati (identificazione dei comportamenti sbagliati, autori della punizione e luogo della pena) rimanevano inalterati nella coscienza collettiva, ma la speranza che rappresentassero una spinta verso il cambiamento sociale era completamente scomparsa.

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“La nave dei folli” - famoso dipinto di Jeronimus Bosch.

Il dipinto “La nave dei folli“ di Jeronimus Bosch illustra esattamente questo sentimento: sulla barca sono presenti alcuni religiosi (la più importante espressione del potere in quel periodo) che mangiano e si divertono; una monaca suona il liuto (rappresentazione della lussuria) mentre, assieme ad un frate, addenta una focaccia; c’è solo un povero sulla barca, che non appartiene al gruppo (è l’unico a sbucare, quasi furtivamente, da un fitto fogliame) e che si arrampica sull’albero (l’albero della cuccagna) tentando di appropriarsi di un pollo; un giullare, ultimo rappresentante di quei capi-branco che guidavano l’esercito dei morti ritornanti, e da sempre identificato come la serpe in seno del potere, a metà strada tra i potenti ed il povero, volge le spalle al gruppo, aspettando tempi migliori.

Il rito subirà poi la trasformazione nell’odierno carnevale, che stempererà sempre di più il ricordo della sua origine dissacratoria nella banalità del divertimento fine a sé stesso.

Se le tradizioni si presentano in forme mutevoli nel tempo, non è detto però che la loro rappresentazione rituale scompaia per sempre; così il corteo dei morti ritornanti ha ancora la sua manifestazione interpretativa in tutte quelle feste che si richiamano proprio a questa origine primaria: i mamutones sardi, i krampos dei paesi di cultura germanica, i “pasquaroli” romagnoli, fino al tanto vituperato Halloween, sono i figli di questo padre di cui si è ormai persa la memoria; così come le tante “scamapanate”,  la “festa dei becchi” 

romagnola ed altre manifestazioni simili lo sono relativamente al fenomeno del charivari.

Per quanto riguarda il carnevale sappiamo che esiste ancora.

Rimane solo da aggiungere una notazione: poiché queste ritualità non sono riuscite nel loro intento, pur perdurando l’eterno desiderio umano di una società più giusta, non è irragionevole ritenere certe forme di disagio collettivo contro l’idea attuale del “vivere normale”, che spesso sfociano in forme di protesta (a volte, purtroppo, anche autolesionistiche, soprattutto nel caso di manifestazioni di disagio dei ceti più giovani) siano da considerare semplicemente come trasformazioni ultime della stessa idea originaria, e come tali siano da prendere in considerazione, senza demonizzarle.

Ma per questo lasciamo la parola ai sociologi.

[1] Un esempio di antichi termini romagnoli, già dimenticati cinquanta o sessanta anni fa, si può trovare nel lavoro:  R, Cortesi, Antichi termini romagnoli, la Ludla, anno XV – maggio 2011, n° 5; visionabile anche online sul sito della Associazione Friedrich Schürr.

[2] Vedere, a questo riguardo, i lavori “Le origini del Carnevale (parte prima e parte seconda)” alla pagina Testi di questo stesso sito.

[3] Va notato come nell’esecrare l’adulterio non ci si rifacesse all’aspetto morale, ma al fatto che esso dava origine ad un elemento di dissidio all’interno del gruppo sociale. In caso di adulterio anche la nascita di un figlio, per i problemi dinastici relativi alla proprietà che comportava, era fonte di problemi che coinvolgevano l’intero corpo sociale; si era in presenza, in quei momenti, di comunità poco numerose se paragonate al nostro attuale concetto di società, per cui tutti i problemi ricadevano inevitabilmente sull’intero gruppo.

[4] Lo stesso comportamento di deprecazione non venne attuato invece dal potere politico, in quanto le relative leggi erano considerate non riguardanti l’aspetto morale (lasciato alla gestione delle regole religiose) ma solo quello più prosaico della vita di tutti i giorni.

[5] Nei paesi di lingua inglese questi fenomeni venivano definiti popolarmente “skimmington”, in quelli spagnoli “encerrada”.