Esistono ragioni per cui figure popolari  nella favolistica di tutto il mondo non sono presenti nella nostra regione?

È sufficiente esaminare i testi più importanti della favolistica romagnola per accorgersi che le figure di Pollicino e dell’Orco non sono presenti in Romagna; a prima vista sembrerebbe un’anomalia inspiegabile, dato che l’analisi della struttura delle fiabe ci ha ormai chiarito che esistono figure archetipiche fondamentali, quelle che (con i relativi sottintesi etico-sociali) rappresentano il mondo dell’inconscio dell’uomo, e che pertanto hanno un valore universale; non ritrovarle in un’area culturale sembrerebbe attestare una carenza di valore dell’area stessa, una sorta di “buco” nella creazione del mondo immaginario tale da identificare una mancanza di valori etici. 

Ci aspetteremmo quindi di trovare queste figure anche in Romagna; in particolare ci aspetteremmo di scoprire anche qui uno degli incontri/scontri più famosi presenti nelle fiabe: da una parte il desiderio di avventura dell’uomo che, alla scoperta del mondo, deve combattere le forze dell’ignoto e della natura selvaggia fidandosi solo delle proprie (minime) forze muscolari e fidandosi soprattutto della sua intelligenza, e dall’altra la brutalità e la malvagità, anche se impersonale e non strettamente intenzionale della natura selvaggia.

Sia nella favolistica che nella mitologia di tutto il mondo (a cominciare da quelle di Davide e Golia presenti nella Bibbia) esistono personaggi così famosi che hanno finito per rappresentare universalmente lo scontro tra la brutalità delle forze caotiche dell’universo sconosciuto (la foresta, i paesi inesplorati, le esperienze nuove) ed il coraggio e la curiosità di chi si appresta ad affrontare per la prima volta proprio queste esperienze inesplorate, o comunque, più in generale, lo scontro tra due realtà culturali diverse.

Se analizziamo invece la favolistica della Romagna ci accorgiamo invece che la figura dell’Orco (e del suo contraltare Pollicino) sono assenti; vedremo che esistono figure simili, ma non quella della classica figura divoratore di bambini (l’antropofagia e l’antropofago sono due elementi centrali di tutte le culture, basti pensare a tutta la letteratura basata sui racconti di lupi e licantropi) così come manca la figura che si oppone (anche semplicemente dal punto di vista culturale, cosa più importante dal punto di vista sociale) a questa pratica divoratoria.

La nostra ricerca su questo fenomeno ci è stata confermata da un volume sul significato simbolico della figura dell’Orco pubblicato da Tommaso Braccini[1]; in questo lavoro è stata riportata una mappa dell’Italia attestante la sua presenza in quasi tutte le regioni del nostro paese: unica eccezione è proprio la Romagna, al che l’autore stesso giunge alla conclusione che tale figura è assente nella nostra zona, e che se qualche volta sembra di intravederne la somiglianza con personaggi simili, il fatto è da ritenere una derivazione indotta dal contatto culturale con la favolistica internazionale, una sorta di contaminazione dalle fiabe romagnole con quelle internazionali più famose dei fratelli Grimm o di Perrault, e non ad un’origine autonoma e locale.

pollicino 1

Nella favola di Pollicino è significativo soprattutto il suo ruolo di “ultimo” dei figli, ed anche il meno importante nella stima dei genitori; fatto simbolicamente rappresentato anche dalla sua statura, come ben evidenziato in questa immagine, ripresa da un libro di fiabe.

Braccini ne evidenzia una sola presenza: si tratta di una fiaba riportata da Orioli[2], ed anche in questo caso sono da evidenziare delle significative differenze. Infatti il cattivo in questione in questo caso viene chiamato lòv (ossia vorace, ingordo, goloso) e, a causa di questo nome, viene confuso con il lupo[3]. Quando viene rappresentato lo scontro con un’entità malvagia questa, se pur assimilabile solo  fisicamente all’Orco,  appare  più come il simbolo

del male tout court che non come il mostro antropofago. Lo stesso si può dire della figura di Pollicino.

Sebbene siano presenti fiabe che ci mostrano bambini scaltri ed intelligenti, che salvano sé stessi e gli altri da situazioni incresciose, mancano i tipici riferimenti della figura classica di Perrault, a cominciare da nomi che lo collegano alla povertà (Scarsellino, Pezzettino…), o quello relativo alla numerologia di fonte esoterica (Tredicino …) o ancora alla sua posizione subordinata all’interno della famiglia (Piccolino, Ultimino…).

Tralasciando gli innumerevoli casi presenti in tutte le culture europee, nel nostro paese l’Orco compare per la prima volta nella mitologia e nella religione etrusca, dove compare chiaramente proprio con questo stesso nome, ma a volte identificato anche nel dio Calu, vestito con pelle di lupo, a volte con il demone Tuchulcha, come quello dipinto nella Tomba dell’Orco, la tomba della famiglia Murina a Monterozzi; ricompare poi nel mondo romano, anche se con una visibilità un po’ più confusa, dato che in questo caso a volte è difficile distinguerlo da Caronte o da Ade.

Ciò che lo contraddistingue particolarmente in queste due civiltà (soprattutto in quella etrusca) è il suo aspetto di entità vorace, che imprigiona l’uomo attraverso l’inghiottimento; una pratica antropofagica che non spaventa tanto per l’atto fisico, ma per il suo significato psicologico e religioso: la bocca dell’Orco è solo una porta, attraverso la quale si finisce in un ventre visto come un luogo di pena e di dolorose punizioni più per l’anima che per il corpo[4].

Nel simbolismo dell’Orco c’è soprattutto il senso terrificante dell’inghiottimento e dell’annichilimento, fisico e morale.

Non si può non percepire, in tutto ciò, un apparentamento di questa logica simbolica con quella universalmente diffusa del rapporto tra vivi e morti, della paura dei primi nei confronti dei secondi, perché visti come entità che hanno come obiettivo quello di condurli nell’al di là, trascinandoli negli inferi attraverso quella porta tra i due mondi (il mundus della cultura latina) che si apre solo in certe occasioni (il periodo detto del mundus patet) e che rappresenta la sola apertura attraverso la quale i morti possono giungere nel mondo dei vivi inoltre il fatto che i morti possano percepire l’odore dei vivi è diventato un topos di tanta letteratura nera, e questa idea la possiamo trovare fossilizzata nella classica frase dell’Orco, pronunciata quando i bambini sono nascosti in casa sua: “…ucci ucci, sento odor di cristianucci….”.

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Il dio etrusco Calu, coperto da una pelle di lupo.

Sempre un accostamento ai morti visti come coloro che puniscono i peccatori ci viene dalla figura greca di Horkos, indicato da Esiodo nella sua Teogonia quale demone che punisce i giuramenti mancati.

     

Inoltre l’idea che l’Orco sia un’entità non umana, o divina, per quanto negativa, è giustificata anche da altre sue caratteristiche: può percorrere velocemente grandi spazi; come il male che può presentarsi sotto molte forme, l’Orco può assumere diversi aspetti (quello della fiaba Il gatto con gli stivali viene divorato proprio perché si trasforma in topo); ha un appetito insaziabile, giusto paragone di un mondo infero che non può mai essere riempito.

Dopo il periodo romano l’Orco sembra scomparire nelle tradizioni popolari e nei miti di quasi tutta l’Europa, riapparendo solo nel medioevo e particolarmente in Germania ed in Francia: pare quindi di poter identificare un percorso che dall’Italia antica passa all’Europa continentale, e solo dopo di ciò sembrerebbe ritornare da noi.

Nel XIII secolo ricompare infatti nella letteratura italiana: se ne hanno tracce in Jacopo Tolomei (1290), Fazio degli Uberti (1367), nel Pulci, in Canigiani (1363), nel Boccaccio, nell’Orlando Furioso, lo ricordano Gianfrancesco Straparola (1480 – 1557) e Giambattista Basile (1556 – 1632); ricordato con il termine ogre passa poi dalla Francia all’Inghilterra nel “700, finendo nella letteratura fantastica, anche attuale (come, ad esempio, in quella oggi probabilmente più conosciuta e resa famosa da Tolkien dove, però, perde le caratteristiche classiche dell’Orco delle favole).

In tempi a noi più vicini è presente nella tradizione popolare toscana probabilmente, per quanto detto, a causa di reminiscenze etrusche.

Il fatto che in Romagna la figura dell’Orco sia poco presente può dipendere da molti fatti.

La sua caratteristica più evidente, quella del mostro divoratore, lo apparenta anche al lupo, e come tale può essersi trasformato nelle tradizioni romagnole (abbiamo già detto della fiaba di Orioli e del dio Calu che si copre con una pelle di lupo).

Anche il lupo è un divoratore insaziabile, anche il lupo rappresenta la forza bruta in lotta con l’eroe mitico, anch’esso è ricoperto di peli che ricordano la villosità dell’Orco (generalmente rappresentato con una barba e baffi enormi e scomposti); per contro bisogna dire che le tradizioni popolari in genere ci rimandano lo scontro con il lupo più come una delle tante prove che l’eroe iniziatico deve affrontare piuttosto che come simbolo escatologico.

Un’altra figura che può aver ereditato le caratteristiche e l’eredità dell’Orco potrebbe essere quella dell’ ”uomo selvatico” (l’om saibadgh molto presente nelle nostre tradizioni). Anche in questo caso abbiamo la villosità, la bestialità inumana, il desiderio di cibarsi di carne umana, l’avere la propria abitazione in selve o boschi lontani dagli abitati degli uomini, quasi un “luogo estraneo” al vivere civile, così come il castello dell’Orco si situa generalmente in un piano temporale e fisico separato da quello reale; anche l’uomo selvatico è grande e grosso, assimilabile alla forma dell’Orco[5].

Così come la forza bruta, la voracità e la villosità vengono rappresentate spesso dalle figure dei giganti, molto spesso incapaci di parlare; abitanti di selve e foreste, sono costretti a cibarsi solo con prodotti “pastorali” (latte, formaggio, prodotti della terra) il che li rende particolarmente bramosi di carne, quando è possibile anche umana.

selvatico

Una immagine popolare dell’“om saibadgh”

Sono tutte ipotesi che giustificano la trasformazione di una figura in un’altra secondo quelle logiche che prevedono la sovrapposizione sincretica, e che Carl Von Sydow studiò, soprattutto a riguardo dell’uso dei simboli, nella tecnica chiamata “degli ecotipi”[6], che però è valida in tutto il mondo, e che quindi ci spiega la mancanza di questa figura specifica non solo in Romagna (almeno per quello che riguarda l’area europea).

Per capire la presenza di questa apparente anomalia relativamente al nostro territorio bisogna rifarsi probabilmente ad un altro elemento, che abbia validità solo nella nostra regione.

Già Braccini, nel suo studio, ricorda come il termine “Orco” sia suscettibile di cambiamenti nella forma: egli propone una possibile modifica nel tempo del termine secondo la logica gorgone > gorgo > orgon > uragu > urgu > orgu > orcu > orco, giustificandola con quanto

 

scritto da Sesto Pompeo Festo nel De verborum significatu[7], secondo il quale gli idiomi antichi con la lettera “o” esprimevano anche il suono della “u”, e con “c” il suono della “g”.

Seguiamo questa logica, e riportiamola alla nostra area, zona di miscelazione di lingue (tra le quali il celtico ed il latino).

Proprio il Tolkien prima ricordato, che sebbene noto soprattutto come autore di romanzi era uno studioso di lingue, sapeva che latini e gaelici avevano gli stessi comuni antenati indoeuropei, e conosceva le regole di trasposizione dei suoni nelle due lingue. Tolkien[8] ci ricorda che i termini indoeuropei che iniziavano con la lettera “p” venivano, presso i celti, a volti sostituiti con la “f”, a volte con la lettera “v” (è il caso, già citato, della trasformazione di “lupo” – lop in lòv, come riportato alla nota 3) mentre a volte perdevano completamente la lettera iniziale.

Un esempio del primo caso lo abbiamo nel termine indoeuropeo pita, origine del termine “padre”, che diventava pater in latino e fater in gaelico (poi father nell’inglese moderno); nel secondo caso (quello relativo alla perdita dell’iniziale) il porcus latino poteva diventare orcus nelle popolazioni celtiche.

In antropologia, come in altre scienze sociali, sono sopratutto le aree di confine che vengono studiate, in quanto mantengono più a lungo entrambe le tradizioni dei paesi confinanti.

Per questo motivo è facile pensare che le antiche popolazioni romagnole, risultanti dall’unione della cultura latina con quella celtica, utilizzassero entrambe le logiche grammaticali, e che i due termini si siano confusi in maniera tale da rendere la figura demoniaca (orcus) con quella del maiale (porcus) e viceversa. Una prova ci viene data dal termine òrch, utilizzato in Romagna per il maiale di macchia, anche se chi scrive l’ha trovato, nella bibliografia riguardante il dialetto romagnolo, una sola volta[9], e giustifica le caratteristiche fisiche comuni delle due figure (villosità, zanne, ingordigia).

In quanto alla figura di Pollicino, la mancanza è, in parte, figlia di questa stessa logica: se anche ci fosse stata la presenza di un’eventuale figura simile nel passato della nostra regione, sarebbe stata dimenticata sotto la pressione di fiabe più conosciute, più importanti, quelle venute dall’Europa continentale che imponevano il duo “Orco – Pollicino” come preponderante rispetto a miti locali.

Ma, soprattutto, riteniamo che l’obnubilazione di Pollicino si debba alla presenza predominante in Romagna di un’altra figura tutoriale, quella del mazapégul.

Da noi è quest’ultima figura che la fa da padrone quando si parla di esseri protettori, folletti benefici e maliziosi, ma, soprattutto a riguardo del tema che stiamo trattando.

Il mazapégul possiede già tutte le caratteristiche che sono tipiche del fratellino che salva i fratelli maggiori, possiede le qualità salvifiche nei confronti di chi deve proteggere, sa indicare la strada giusta da seguire, non ha bisogno delle briciole di pane che indicano il sentiero per ritrovare la sua abitazione, perché è un essere che si trova ad un livello spirituale più alto dei comuni mortali; ha origine da figure psicopompe, quasi divine, ed in questo è necessariamente superiore alla figura, tutto sommato umana, di Pollicino.

Forse non a caso la tradizione romagnola non ci ha tramandato altri folletti.

[1] BRACCINI T.: Indagine sull’Orco. Miti e storie del divoratore di bambini, Il Mulino, Bologna 2013.

[2] ORIOLI S.: Fiabe romagnole, Longo Editore, Ravenna 1991.

[3] Notare che il termine dialettale romagnolo arcaico per “lupo” era appunto lòv, poi sostituito dal più recente (ed attualmente utilizzato) lòp, mentre il termine lòv continua a sopravvivere, nel dialetto romagnolo, con il significato di “ingordo”, “goloso”. Gli studiosi di linguaggio fanno notare che sostituzione della lettera “v” con la “p” o con la “f”, è un meccanismo tipico dell’evoluzione delle lingue di origine indoeuropea. L’esempio più noto del secondo caso è quello del latino pater che, trasferitosi nelle isole britanniche, divenne father.

[4] Analisi condotte su gruppi di volontari sono pervenute alla conclusione che, dopo la paura di essere bruciati vivi, il tipo di morte più temuto dagli uomini è quello di essere inghiottiti da un animale; in ciò ha una forte componente l’aspetto psicologico più che quello prettamente fisico (il senso di soffocamento, l’impressione di essere sepolti vivi, ecc…).

[5] L’Orco appare come un gigante nella fiaba Jack ed il fagiolo magico.

[6] VON SYDOW, C., “Geografy and Folk-tale Oicotypes”, Bealoideas, Ireland Society Folklore Collection 1934.

[7] BRACCINI T., op. cit., pag. 225.

[8] Tolkien C.: The letters of J. R. R. Tolkien, n°144, April 25h 1954.

[9] Sbrighi A.: La trapla ad giaz, La ludla, Anno IX, Dicembre 2005, n° 10, pag. 8. In questo racconto dialettale si usa proprio il termine òrch per indicare il maiale di macchia (o maiale selvatico) quello che poi darà origine alla razza conosciuta come “mora romagnola”.