Così come si fa per la classe umana, la mentalità romagnola del passato stilava una graduatoria del valore degli animali.

Nell’antica società contadina romagnola, legata soprattutto all’agricoltura, gli animali assumevano valori e valenze profondamente diverse tra loro; come se, al pari di quella umana, esistesse una civiltà animale dove ogni specie diventava una classe sociale, con tutti i vizi e le virtù relative.

Probabilmente niente di diverso da quanto si fa anche oggi, soprattutto quando pensiamo al valore di insegnamento morale che viene attribuito agli animali nelle fiabe per bambini, con l’unica ma importante differenza che, nel passato della Romagna, questa casistica forniva un paradigma per una valutazione “anche” utilitaristica degli animali stessi; cosa, d’altro canto, abbastanza comune a tutte le civiltà agrarie, un po’ diversa dal sentimento romantico che nutrono verso di essi tutte quelle persone con non sono costrette a basare il loro sostentamento sull’allevamento degli stessi.

Volendo trovare una giustificazione a questo atteggiamento, possiamo ricordare che terminato l’antico periodo durante il quale gli animali, per il loro aspetto prevalentemente totemico, erano circondati dal rispetto o dalla paura, si cominciò a considerare in maniera diversa il loro rapporto con gli uomini.

Durante il periodo del totemismo, infatti, le caratteristiche tipiche di un particolare animale venivano proiettate sugli individui che avevano per totem quell’animale stesso, creando con ciò una primitiva diversificazione tra gruppi; si rispettava il proprio totem, ma ci si guardava bene dal disprezzare quello di una tribù nemica: gli animali-totem vivevano in un universo superiore a quello umano, non erano toccati dalle divisioni tribali, e la loro ira poteva colpire chiunque. Quindi il disprezzo verso qualsiasi animale totemico era sconosciuto agli uomini di quei periodi.

Da allora è passato parecchio tempo, il rispetto/timore per gli animali totemici si è perso, e le forme religiose che si sono susseguite hanno profondamente modificato questi concetti.

Per i contadini romagnoli (come, d’altro canto, come si può facilmente verificare per qualunque altra cultura agraria) è possibile stilare una graduatoria delle caratteristiche peculiari degli animali, assegnando loro aspetti che andavano dalla “nobiltà” alla “pericolosità”, passando da infinite forme intermedie (animali stupidi, animali inutili, malfidati, pericolosi ecc…).

I più nobili di tutti, e particolarmente cari al contadino, erano naturalmente i bovini; talmente importanti per l’economia agricola per il loro contributo sia alla fatica del contadino (per l’aratura) che come fornitori di carne e latte, che i romagnoli finirono per identificarli, per antonomasia, “le bestie” (al bes-ci).

E’ tipico delle culture agrarie utilizzare quest’identificazione totalizzante per tutto ciò che veniva considerato essenziale al sostentamento del gruppo: analogamente ai bovini lo stesso fenomeno esisteva per la falce, quale strumento indispensabile alle pratiche agrarie: era infatti “il ferro” (la fera); e per lo stesso motivo il vino era “il bere” (e’ bé).

cinghiale

La più antica razza di suini presenti in Romagna era quella detta “mora romagnola”. Come il cugino toscano (il “cinta senese”) era una razza discendente dal cinghiale, ottenuta dopo l’addomesticamento e con lunghi incroci.

In realtà, nonostante quanto detto qualche riga sopra sul perdersi dei valori delle culture totemiche, qualche concetto relativo a questo primitivo sentimento religioso rimaneva, almeno nei confronti dei bovini (difficile cancellare totalmente, nella nostra memoria ancestrale, quanto viene impresso da secoli d’acculturazione).

I bovini, nella loro immagine di animali indispensabili, erano ancora considerati in possesso di quella caratteristica di “spiritualità benefica” che li metteva in grado di appartenere contemporaneamente al mondo degli uomini ed a quell’universo liminare, molto vicino alla sfera del divino, che li collegava al mondo astrale (basti pensare al rapporto tra l’aratura e l’apparizione di Venere (la stela buvareina[1]); o, soprattutto alla possibilità di acquistare la parola durante la notte dell’Epifania, e di poter prevedere il futuro. E’ noto come i due buoi della stalla romagnola (Ro e Bunì) parlassero tra loro in quei momenti, e si scambiassero soprattutto valutazioni e confidenze sul loro proprietario; il timore per i suoi possibili giudizi negativi, faceva sì che nel contadino albergassero contemporaneamente amore e paura per questi animali.

Quello di parlare non deve essere però preso, in assoluto, come elemento indicativo di nobiltà o positività; si diceva, infatti, che anche civetta (zveta) ed assiolo[2] (e’ ciù) possedessero la parola nella stessa notte; infatti “la nota dla Pasquèta e’ scor e’ ciù e la zveta”,  (la notte della Pasquetta parlano l’assiolo e la civetta) ed i due animali non erano certo tra i più amati o ben considerati: la civetta si trascina da secoli una fama di animale notturno e quindi con valenza negativa; (assieme al parente gufo è uno degli animali classicamente associati alle streghe) mentre l’assiolo non era famoso per l’intelligenza; era infatti quest’ultimo  volatile ad essere usato come termine di paragone dalle madri nei confronti dei loro bambini, quando questi si comportavano in maniera non proprio furbesca “..t’am pè propri un ciù..” (mi sembri proprio uno stupidotto); ancora si diceva,  di una persona stupida: “…u j’à dê un bëch e’ ciù …” (gli ha detto un becco un assiolo).

Lo stesso modo di dire esisteva in una versione in cui all’assiolo era sostituito il cucùlo (e’ cóc): “…u j’à dê un bëch e’ cóc …”. L’insipienza che veniva attribuita al cucùlo è confermata anche da una nota di Bagli[3]:“…l’è tota pena e vosa cum e’ cóc…” (è tutta penna e voce come il cucùlo) dove, probabilmente, in questo caso ciò che infastidiva i contadini era la scarsa possibilità di utilizzare il volatile come risorsa alimentare.

Lo stesso cucùlo compariva in un altro modo di dire “… e’ cóc un sa fê e’ nid, mo ul vo’ inşgnè a chietar…” (il cucùlo non sa fare il nido ma vuole insegnarlo agli altri): quindi, oltre all’insipienza, gli veniva attribuita anche una patente di spocchiosità, nata forse dall’aver osservato la sua abitudine di lasciare le proprie uova nel nido di altri uccelli.

regolino pareidolia

È regul, il mitico animale imparentato con la serpe.

Forse i pescatori avevano così poca considerazione del gabbiano perché lo vedevano ingerire qualunque tipo di cibo trovassero alla loro portata oppure, molto più probabilmente, come a tanti altri volatili anche a questo veniva affibbiata l’ingiusta fama di stupidità che ancor oggi perseguita le incolpevoli galline. Fama alla quale sfuggiva solo il gallo, probabilmente per l’inconscia ammirazione del contadino romagnolo per un animale che possedeva un harem, e motivo del suo ruolo assunto a simbolo di fenomeni legati alla fertilità ed ai suoi riti.

Un altro animale importante e coccolato era il maiale, il quale però aveva la sfortuna di un destino che lo condannava inevitabilmente alla morte, per cui si potrebbe pensare che l’apparente ottimo trattamento che riceveva, soprattutto per quanto riguardava la sua alimentazione, fosse in funzione solo del suo ingrasso in attesa della macellazione; in realtà, proprio perché così importante per il sostentamento della famiglia, è probabile che ci fosse una sorta inconscio ringraziamento a chi forniva gli alimenti per superare i primi freddi dell’anno; quando lo scrittore Graziano Pozzetto ha scritto il suo libro su questo animale[4] è probabile che i termini “ti voglio bene” che compaiono nel titolo del libro si riferissero proprio a questo inespresso sentimento.

Anche il maiale è diventato paradigmatico del modo di vivere umano: quando si mangiava in maniera smodata si usava dire “… avem magné coma di baghén …” (abbiamo mangiato come dei maiali) modo di dire, comunque, utilizzato in tutta l’Italia.

Pochi esempi significativi si trovano per la figura del cavallo; era un animale raro tra i contadini (poco adatto a  lavori di fatica) e più vicino a personaggi umani di un diverso peso sociale: era il cavallo che portava il calesse del padrone o del fattore, e che portava alla messa domenicale la moglie ed i figli di questi, oppure veniva  associato alle forze militari; diventerà importante per una categoria sociale, quella dei carrettieri (in Romagna definiti più esattamente “i bruzer”, i birocciai, dal nome della “broza”, il carro romagnolo a due ruote per i trasporti pesanti[5]) figure che si collocavano tra la cultura contadina e quella dei paesi, occupandosi spesso di trasporti di tutti quei materiali che erano necessari alle costruzioni urbane. Avranno una grande importanza durante i lunghi lavori di bonifica di tutta la valle padana.

Il concetto di nobiltà non può dirsi invece dell’umile asino, il cui classico modello identificativo era quello della stupidità: ”… e sumar e’ porta e bè, mo lo e’ bè l’aqua …” (il somaro trasporta il vino, ma beve l’acqua).

L’asino merita però un’analisi un po’ più approfondita.

Nonostante la classica identificazione appena ricordata, l’animale era amato dai romagnoli e, fenomeno particolarmente significativo, lo era da entrambe le categorie (generalmente in contrasto tra loro) nelle quali era diviso il mondo politico-sociale della Romagna; infatti in quanto simbolo di umiltà la sua figura è sempre stata molto presente nel mondo cristiano, e questo aspetto lo faceva amare dai frequentatori della chiesa; ma lo stesso succedeva per quelli che invece in chiesa non andavano, perché l’asino era ritenuto simbolo di tutti gli oppressi (e questa categoria di romagnoli tra gli oppressori metteva naturalmente anche il clero). Per questo settore sociale l’animale non era tanto uno “stupido” quanto un “oppresso rassegnato”, ma che un giorno e l’altro avrebbe anche potuto decidere di rifiutare la perpetua obbedienza e di cominciare a tirare calci[6].

Cani e gatti non erano compagni di lavoro come gli animali precedentemente ricordati ma “compagni di casa” (più i primi dei secondi) anche se non oggetto di quel amore e di quella affezione che siamo abituati a vedere al giorno d’oggi; in una mentalità utilitaristica come quella  contadina anch’essi dovevano contribuire al buon andamento della casa: il cane come animale da guardia, a volte come compagno di caccia, ed il gatto per tenere sotto controllo i roditori che avrebbero potuto distruggere le scorte alimentari.

Si instaurava così un rapporto a metà strada tra il semplice possesso e la collaborazione, istituzionalizzata da infiniti rituali ricordati in tanti scritti, ai quali si rimanda, sul folklore della nostra terra; ma tanto per fare qualche esempio dei riti di “fedeltà alla famiglia” a cui si sottoponevano questi animali, si ricorderà il cane tenuto per qualche attimo nel forno della casa, oppure “battezzato” con la catena del camino posta attorno al collo, ed il gatto marchiato a fuoco con un attrezzo dello stesso camino (cosa che oggi ci fa inorridire, ma che va vista nella cultura del momento).

Compagni nell’aiuto alla famiglia possedevano però caratteristiche diverse; alla fedeltà indiscussa del cane si contrapponeva la sorniona scaltrezza del gatto: “… l’è ad gata vëcia …” (è di gatta vecchia) si diceva di persona furba.

Di animali considerati decisamente pericolosi e maligni c’era, in definitiva, solo il lupo e la serpe (abbiamo visto come gufi e civette godessero di una considerazione ambigua) anche se nelle sue varie forme; si va dal “regolino” (e’ regul) un animale immaginario che, simile alla serpe, doveva il nome alla sua caratteristica fisica di possedere una cresta simile ad una corona (da cui il nome che rimanda ad una sua presunta “regalità”) fino alle infinite interpretazioni antropomorfiche delle serpi (besabova, anguana) delle quali si è già abbondantemente scritto[7].

lupo

Un lupo attenta al gregge custodito da un pastore disattento.

Si tratta, in questi casi, di malignità a tutto tondo, lontana da quel aspetto ambiguo che è tipico invece di tanti apparentemente maligni personaggi, di cui si trova vasta traccia nel patrimonio favolistica (fate, streghe, vecchi maghi); in queste ultime la cattiveria è spesso solo superficiale, finalizzata alle prove a cui è sottoposto l’eroe protagonista della fiaba stessa (come così ben spiegato da Vladimir Propp), mentre l’anguana e le figure apparentate sono cattive e maligne “in assoluto” desiderose di assorbire la vita delle vittime (possibile retaggio di antichi riti funebri e di lotte sociali).

Non manca però, anche in questo caso, quella atavica paura tipica dei momenti totemici che abbiamo ricordato all’inizio di questo lavoro: il totem negativo, se affrontato, può vendicarsi; probabilmente proprio a questo antico retaggio si deve la paura espressa del detto: “… a tirêr al bés ut po’ s-ciupè al cân ...” (se si spara alle bisce possono esplodere le canne del fucile).

Tra gli animali tenuti c’era anche il lupo, ancora presente in un paese scarsamente abitato ed in larga parte incolto: la voracità era la sua caratteristica dominante, da cui la frase “… e magna com un lov[8]” (mangia come un lupo).

Oltre alla cultura contadina, che è quella più spesso ricordata quando si parla di tradizioni romagnole, non bisogna dimenticare che, come si è già accennato, in Romagna c’erano anche gli abitanti delle zone costiere; a loro si devono alcune classificazioni legate alle presunte caratteristiche di alcuni animali marini: di un credulone si diceva “…e bèca com un buratel …” (abbocca come un’anguilla); invece di un sedicente tuttofare “…l’è tota testa com una mazóla …” ( è tutta testa coma la mazzola[9] ….) in riferimento alla scarsa resa edibile di questo pesce dalla grossa testa; se poi qualcuno si agitava nel sonno, al punto di lasciare lenzuola e coperte aggrovigliate si diceva “… e pè chi sia pasè i dulfèin … “ (sembra che siano passati i delfini).

Il motivo di tale detto stava nel fatto che i delfini, quando, alla ricerca di cibo, incappavano nelle reti dei marinai, per liberarsi si agitavano talmente da rompere le stesse reti; per questo motivo era un animale temuto, e c’erano alcuni pescatori che si erano specializzati nell’uccisione del delfino, affrontato direttamente nell’acqua, con il solo aiuto di un coltello.

 

[1] Oggi noi sappiamo bene che Venere è un pianeta, ma la qualifica di “stella” è rimasta nel dialetto romagnolo come retaggio antico.

[2] L’assiolo è un volatile della famiglia degli Strigidi, ossia un parente di gufo e civetta. Sembra un po’ un incrocio tra i due, ma di corporatura decisamente più piccola.

[3] Giuseppe C. Bagli: Saggio di studi su i proverbi, i pregiudizi e la poesia popolare in Romagna, cap. XII.

[4] G., Pozzetto: Caro vecchio porco ti voglio bene. La tradizione del maiale in Romagna. Il Ponte Vecchio Editore, Cesena 2014.

[5] L’origine del termine “broza” viene, secondo la maggioranza degli studiosi di etimologia, dal nome latino bis rota, appunto “carro a due ruote”.

[6] Occorre dire che questo concetto non era solo tipico della Romagna, ma si trovava in tutta l’Italia. Non per niente una importante rivista politico-satirica diffusa a livello nazionale a cavallo tra “800 e “900 si chiamò proprio “L’Asino”.

[7] A riguardo dell’”anguana” e della “besabova” si rimanda al lavoro: TRA  BORDA  E  ANGUANA. Similitudini e discrepanze tra figure femminili legate al culto delle acque. Il loro ricordo tra Romagna e regioni nordiche, pubblicato alla pagina TESTI di questo stesso sito.

[8] Da notare che il nome romagnolo più antico era, appunto, “lov”, sostituito poi dal più recente “lop”. A riprova di ciò si ricorda che esistono ancora romagnoli anziani che chiamano “bochi ad lov” il fiore noto come “bocche di lupo”. I nomi degli animali sono quelli che più hanno risentito della mutazione dovuta ai tempi; si ricorda, come esempio classico, una fiaba romagnola, intitolata “Il leone e la lontra”, che in romagnolo suona come “L’aglion e la lotra”.

[9] “Mazzola” è uno dei nomi gergali della “gallinella di mare”.