L’atteggiamento dell’antropologo culturale nei confronti del problema della veridicità fenomenica.

L’antropologo culturale, come lo storico, o l’archeologo, deve affrontare il problema della veridicità di ciò che sta indagando.

Mentre, però, nel caso delle altre due professioni la veridicità è generalmente quella dei “dati” analizzati (documenti scritti, oggetti, informazioni temporali …) e ci si può permettere di rimandare al proprio giudizio ed alla propria competenza solo tutto ciò che non ha la caratteristica di un dato sicuro (valutazioni precedenti su quello stesso argomento, bibliografia esistente, termini comparativi …), l’antropologo non si trova in queste condizioni, in quanto non analizza “dati” ma solo “fenomeni”. 

Quindi se storico ed archeologo hanno la possibilità di partire da dati sicuri sui quali elaborare particolari teorie (la data della nascita di Giulio Cesare, quella della battaglia di Maratona, l’analisi chimica di una terracotta, l’analisi geologica dei terreni …) questo importante punto di partenza manca completamente all’antropologo, in quanto egli non può considerare “dato sicuro” (e neppure “dato”) le movenze rituali di un ballo tradizionale di una tribù africana, in quanto quelle movenze non sono “testimonianza sicura” di quelle originali, ma sono filtrate da secoli di modificazione sociale di quella particolare etnia[1].

L’antropologo può considerarle solo punto di partenza della sua indagine, una sorta di mirino traballante su un fucile che dovrebbe permettergli di colpire il bersaglio.

A questa prima difficoltà, che potremmo chiamare “difficoltà a monte”, se ne aggiunge un’altra (“difficoltà a valle”) che nasce nel momento in cui l’antropologo cerca di mettersi in contatto con l’individuo la cui cultura cerca di indagare.

Infatti, se l’archeologo non contamina, prendendola in mano, la chimica di una terracotta, altrettanto non può dirsi di chi si mette a fare domande su antiche credenze e rituali, rendendo stranamente simile in ciò l’antropologo allo studioso di fisica, che può invalidare i suoi risultati semplicemente cercando di misurare la velocità di una particella subatomica.

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Gli storici possiedono sufficienti certezze sulla data di avvenimenti importanti, come le battaglie militari, grazie alla quantità di documenti che possono, eventualmente, essere messi a confronto tra di loro.

Ma la differenza più grande con altri studiosi sta indubbiamente nel concetto stesso di “verità”, che nel caso delle questioni sociali deve necessariamente assumere un significato più ampio di quanto non succeda quando si fanno considerazioni storiche.

Se nella storia è vero solo ciò che è successo veramente, nel rapporto tra uomini il “vero” è anche ciò che si ritiene tale. Se nessuno oggi può mettere seriamente in dubbio la verità storica dell’esistenza di Giulio Cesare, lo stesso non può dirsi, per esempio, della figura di Cristo; ma se la storia dell’Europa ha avuto un’evoluzione sociale e politica dipendente anche dalle vittorie militari della Roma di Cesare, è pur vero che la trasformazione della cultura europea è stata fortemente modificata dall’insegnamento cristiano. Ossia una verità non provata (l’esistenza di Cristo) ha provocato un’evoluzione filosofica e religiosa certa, come certo e indubitabile è, per i credenti, il suo insegnamento.

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Nelle estasi mistiche i nostri antichi progenitori trovavano verità indubitabili.

Se una futura ricerca documentale provasse senza ombra di dubbio che Cristo non è mai esistito, il fatto non toglierebbe niente né ai concetti religiosi che passano sotto il nome di “cristianesimo” né l’evoluzione della cultura occidentale.

Quindi mentre l’esistenza di Giulio Cesare è una “verità storica”, quella di Cristo si può definire come “verità psicologica”.

L’antropologo deve tener presente anche il mito e la tradizione, anche se questi si rivelano poi basati su elementi fattuali non rispondenti ad una realtà concreta. Questo fatto è uno dei motivi della velata critica che a volte si muove agli antropologi, quella di “inventare” un po’ troppo teorie e relative spiegazioni, ma d’altro canto essi sono in buona compagnia[2].

Lo studioso forlivese Piero Camporesi aveva capito perfettamente questo concetto quando diceva che per analizzare e capire l’animo umano era necessaria una certa dose di fantasia.

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Nelle sue paure, nei suggerimenti onirici, nelle invenzioni di gnomi e folletti, l’uomo trovava verità che condizionavano concretamente la sua vita.

Come potrebbe un antropologo non tenere presente quell’universo di idee, di esseri mostruosi e fatati, di mostri che popolavano il suo immaginario, frutto di racconti trasmessi da una generazione all’altra per migliaia di anni?

Basterebbe pensare quanto questi miti hanno contribuito alle credenze religiose ed alle manifestazioni dell’arte.

Volendo fare un parallelo con un’attività analoga alla sua, potremmo paragonare il lavoro dell’antropologo a quello dello psicanalista. Entrambi lavorano su elementi che nascono da un universo irreale, immaginario, che non ha nessun contatto con il mondo reale se non nel fatto che sono prodotte dalla mente umana, e che la più banale delle analisi figurative non può come evidenziare come qualcosa di completamente avulso dal nostro mondo.

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La figura immaginata dei centauri non fa che mitizzare una storia vera, quella delle invasioni dei popoli centro-europei, portatori di un animale allora sconosciuto nel bacino del Mediterraneo: il cavallo.

Eppure esse nascondono simbolismi e verità importanti, così importanti per chi li sogna gli affida dei riferimenti interiori che possono sfociare in ciò che più di ogni altra cosa può definirsi “verità storica”: le proprie patologie.

Anche quando il simbolismo nascosto sembrerebbe nascere da una fenomenologia dubbia, davanti alla quale è lecito porsi con una certa cautela, la possibilità di rinvenirvi delle verità psicologiche non può esimere l’antropologo da prenderla in considerazione, senza scartarne il dovere dell’analisi, se non altro per capire perché qualcuno decide di proporre una fenomenologia non vera.

Un caso tipico di questo caso, e che riguarda particolarmente la Romagna, è quello degli studi sul folklore della Romagna da parte di Charles Leland[3].

Leland raccolse parecchi miti sulla cultura delle popolazioni romagnole in quel territorio, conosciuto allora come “Romagna toscana”, a cavallo tra le attuali province di Firenze e Forlì.

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Charles Leland e la sua “informatrice” Margherita Zaleni. La donna faceva di professione la cartomante, il che non depone a favore della sua sincerità nel fornire documenti allo studioso americano. Leland morì a Firenze, dove è sepolto, assieme alla moglie, nel “cimitero degli Inglesi”. Una sua nipote, Elizabeth Rodin Pennel, ha raccolte le sue opere complete, compresi i manoscritti, che sono attualmente conservate presso la Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.

I suoi oppositori lo accusarono di aver dato troppo credito a notizie che gli venivano fornite da contadini del luogo (in particolare da una certa Margherita Zaleni) che, a loro avviso, semplicemente sfruttavano l’ingenuità di uno straniero a cui era sconosciuta la “furbizia” dei romagnoli nel trarre profitto da una persona di questo tipo (occorre ricordare che Leland, come facevano, ad esempio, tutti gli archeologi di quel periodo, offriva ricompense in denaro a chi gli procurava documenti).

I suoi lavori furono a volte lodati, più spesso criticati dai folkloristi del periodo (Corso, De Nardis, Pettazzoni, Massaroli); vi si rinvennero tesi interessanti ma, molto di più, idee azzardate, confuse e prive di sostegno documentale serio.

La cosa potrebbe anche essere vera, ma è anche vero che un’analisi completa sul suo lavoro, sulle sue fonti e sugli eventuali attuali residui di quanto Leland aveva trovato non è mai stata compiuta da nessuno.

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Charles Leland scoprì un’immagine di una figura (in alto) sul retro di uno specchio etrusco, nella quale ritenne di identificare l’antenato del romagnolo “mazapégul” (in basso, in una stampa popolare del 1800).

Le critiche gli vengono mosse semplicemente dalla lettura (a volte anche solo parziale) dei suoi lavori, mentre ci sarebbe la possibilità di rintracciare, attraverso le anagrafi comunali, le identità delle persone che gli fornirono indicazioni, per valutarne per lo meno la posizione all’interno della struttura sociale di quei paesi e in quei particolari momenti. Leland, infatti, teneva nota, da buon amministratore, di tutti coloro a cui elargiva premi e ricompense in cambio delle informazioni sulla tradizione contadina di quella zona.

Tra l’altro anche i suoi lavori più importanti (ad esempio: Etruscan-Roman Remains in Popular Traditions, C. Scribner’s & son, New York, 1892, o: Aradia, or the gospel of the Witches, David Nutt, Londra, 1899) compaiono in traduzione italiana privi delle note originali dell’autore e, verosimilmente, con alcuni capitoli fortemente tagliati; di uno dei pochi testi critici sul suo lavoro, compiuto da uno psicologo italo-americano (M. Pazzaglini – Charles Leland, Gospel of the Witches, Phoenix Publishing, Blaine, WA, 1998) non esiste traduzione italiana.

E se anche l’analisi dei suoi lavori dovesse portarci alla conclusione che in questi non c’è niente di buono, che il tutto è una sua troppo facile interpretazione di informazioni banalmente false, potremmo dire che, una volta per tutti, il problema è risolto, ed eviteremo perciò di trovare, di tanto in tanto, qualche studioso di antropologia che mette in guardia sui lavori di Leland.

Come avviene in matematica, scoprire che un’equazione non ammette soluzioni è già una risoluzione del problema.

[1] Riteniamo sia capitato a parecchi di vedere qualche documentario scientifico su popolazioni ritenute ancora ad uno stadio molto primitivo, ed aver notato, da qualche parte, apparire una bicicletta o una maglietta con il logo di una famosa bevanda gassata indossata da un bambino, a dimostrazione di quanto nessuna popolazione del pianeta, per quanto lontana dal mondo civile, si possa considerare incontaminata dalla nostra cultura dominante.

[2] Ricordiamo, ad esempio, la categoria degli psicologi; ma anche tutti coloro che, a causa dell’imprecisione delle scienze “cosiddette” esatte (ma in realtà ancora, purtroppo, troppo dipendenti dalla sperimentazione) hanno gli stessi problemi, come i medici. Qualcuno, con qualche ragione, continua a definire queste discipline come “parascienze”.

[3] Charles Leland, nato a Filadelfia, fu una strana figura di ricercatore, antropologo, sociologo sui generis. Si occupò di studi sulle minoranze sociali, sulle religioni antiche, soprattutto quella etrusca. Passò parecchio tempo in Italia per studiare i miti e la religione etrusca, arrivando a conclusioni spesso molto criticate. Il suo atteggiamento anticonformista, la sua passione per la politica estremista (partecipò alla Comune di Parigi) il suo pessimo carattere, furono forse gli elementi che lo resero inviso alla cultura accademica nord americana, più delle sue ipotesi ardite. Per un’analisi di questo studioso si rimanda a: F. CORTESI – R. CORTESI - Sacro e profano. La religiosità popolare in Romagna tra reminiscenze pagane e Cristianesimo – Ed. Il Cerchio, Rimini, 2012, e a: RENATO CORTESI – Streghe, folletti e santi fra Romagna ed Europa. La cultura del fantastico in Romagna tra origini storiche e meccanismi antropologici - Ed. La Mandragora, Imola, 2008, nonché ad articoli di R. CORTESI sulla rivista “Confini”, Ed. Il Ponte Vecchio, Cesena.