Le loro disparate caratteristiche fisiche e caratteriali rendono a volte difficile l’identificazione delle figure tutoriali.

Nelle ritualità presenti nelle culture di tutto il mondo compare spesso una figura fondamentale, un personaggio che guida l’iniziando nelle prove che sanciscono il suo passaggio da fanciullo senza diritti a membro a tutti gli effetti del gruppo sociale. 

Sia esso un sacerdote, uno sciamano, un membro anziano della tribù, a volte lo stesso padre del giovane, questo personaggio assume un ruolo guida per un tempo molto breve, limitandosi ad affiancare l’iniziando nel solo periodo di inizio della prova.

A volte questo lasso di tempo è limitatissimo: può ridursi ai soli istanti di inizio del rito, o a quello necessario a fornire gli strumenti per il rito stesso; questo periodo di tempo può tutt’al più prolungarsi nel fornire brevi consigli, delle indicazioni di massima, oppure ricorda al giovane tutto ciò che non può fare durante la prova, ossia tutto ciò che è “tabù”.

Qualche testo antropologico definisce quest’uomo come “tutore”, ed “atteggiamenti tutoriali” tutte le pratiche messe in atto durante il rito.

Riteniamo sarebbe più giusto riferirsi a queste figure con il nome di “tutori umani”, o ancora meglio “sacerdoti del rito”, per distinguerli da quelli che sono le vere e proprie entità guida dell’iniziando, i “tutori spirituali”.

Non va confuso, infatti, quello che è un incoraggiamento ad affrontare la prova, un incitamento volto a superare la paura iniziale, da quello che invece è la spinta vitale a cui l’iniziando fa riferimento costante fin da bambino, e che seguirà, anche dopo la prova, per tutta la vita.

È questa spinta vitale ad essere il vero e proprio tutore, se con questo termine vogliamo identificare l’entità che fornisce le norme etiche alle quali l’uomo si attiene costantemente, frutto della sua appartenenza ad una certa cultura ma anche, non va dimenticato, della propria individualità.

È un’entità globale ed immutabile.

È globale perché trascende le limitazioni fisiche, ed è immutabile perché non ha nascita e morte; caratteristiche, queste ultime, che sono afferenti alle persone comuni, che possono essere sagge, ma non tanto da fornire un’etica così universale che si presuppone possa venire solo da un essere superiore.

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I giovani etiopi, fino al secolo XIX, dovevano ancora sottoporsi a riti iniziatici per l’ingresso nella comunità degli adulti.

Non possiamo certo definire tali né il padre né lo sciamano, sacerdoti di un rito temporaneo (e che si sono scambiati di ruolo solo perché la comunità si è evoluta passando da un gruppo famigliare ad uno più articolato).

Nonostante questo ruolo così importante per la formazione etica e spirituale dell’uomo, l’identificazione dei tutori, così come ci giungono dalle mitologie e dallo studio delle culture passate, non è sempre facile.

L’idea che si ha generalmente del tutore è quella di una figura maschile, generalmente di mezza età, generalmente con buone attitudini fisiche al combattimento, che accompagna l’iniziando nelle sue peregrinazioni; i miti ce lo hanno tramandato a volte come un maestro, a volte come il compagno di un eroe.

Questa troppo facile tipizzazione può essere confutata dall’analisi antropologica; è però necessario uscire dallo stereotipo sopra accennato, e ciò si può fare solo con l’approfondimento del ruolo del tutore, che risulterà così non solamente la figura in grado di fornire un aiuto puro e semplice, ma uno stile etico di vita.

Il tutore non è solo quello che aiuta il giovane ad uccidere il suo primo animale, che suggerisce il corretto sentiero per non perdersi nella foresta intricata, ma, soprattutto, è colui che spinge il giovane a domandarsi cosa intende fare della propria vita, quale rapporto sociale vuole tenere con il resto della comunità, quale fine vuole raggiungere.

Le norme etiche che l’iniziando tenterà di seguire sono importanti, e nel tentativo di farle sue il giovane seguirà ancora una volta l’insegnamento del tutore, ma sono solo conseguenti a questa scelta iniziale e insostituibile.

Questo aspetto fondamentale dell’insegnamento ci permette già di mettere a fuoco alcune figure tutoriali rispetto ad altre, ed a scartare alcune convinzioni errate su questo ruolo.

Innanzitutto, proprio perché, come detto, si tratta di identificare uno scopo alla propria vita, il tutore è necessariamente una figura privata, non appartiene alla schiera delle figure protettive collettive; non può essere, quindi, il totem, che è un simbolo importante ma appartenente al gruppo, e che permette di stabilire regole di gerarchia sociale all’interno della comunità[1].

Non è neppure detto che debba essere una figura maschile.

L’uomo ha necessariamente la madre come elemento di riferimento nei primi momenti della propria vita, e la figura femminile è stata particolarmente importante per lungo tempo in quei periodi dello sviluppo sociale che ha avuto il matriarcato come forma legislativa ed organizzativa fondamentale.

Le fiabe ci hanno tramandato centinaia di figure di fate, ondine, naiadi, pitonesse che sono state la guida di eroi e giovani che vagavano alla ricerca di avventure e di tesori (che, per traslato, non possiamo non interpretare come ricerca di un fine ultimo).

E questo anche quando il giovane è un maschio, e non solo una fanciulla indifesa.

Altrettanto è successo con i miti; uno fra tutti quello della ninfa Egeria nei suoi rapporti (evidentemente più mitici che storici) con Numa Pompilio, secondo re di Roma.

Altro mito è quello della fata Melusina, che così grande importanza ha avuto nella creazione del rapporto tra uomo e donna nel medioevo[2].

Proprio nella storia di Melusina, e nella sua ricerca di una corretta relazione tra uomo e donna, si intravede un rapporto tutoriale che va al di là di un semplice contributo di “assistenza” tra tutore ed iniziando.

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Con le naiadi e le ninfe inizia un rapporto tra uomo e donna che si spinge fino all’insegnamento amoroso, da quello filiale fino a quello erotico ed, infine al medioevale “amor cortese”.

E se il genere non è discriminante nella definizione del tutore non la è neppure la specie. Partendo dal totem collettivo, identificato generalmente in forma animale, era normale identificare in una forma animale anche il protettore personale, così da giungere ai tanti mostri con antropomorfia bestiale che ritroviamo nei miti e nelle leggende, dai corvi delle antiche leggende del Nord Europa ai lupi nell’area mediterranea, fino al Pegaso di un mito a noi più vicino nel tempo.

Il cavallo, d’altro canto, animale importato dalle popolazioni del centro Europa nelle loro invasioni dell’area mediterranee, ha sempre rappresentato un simbolo di forza, se non altro perché fu uno degli strumenti che permise agli invasori, assieme alle armi in ferro, di sovrapporre la propria cultura a quella delle popolazioni sottomesse.

Abbastanza normale, quindi, di vedere in questo animale un simbolo di protezione ma anche di un certo livello di superiorità culturale.

Da questa logica nascono le figure dei centauri forti e saggi, che si ritrovano in molti miti greci, il più noto dei quali è il centauro Chirone, maestro di Ulisse.

Ancora più interessante diventa la ricerca del tutore analizzando il rapporto tra questo e l’iniziando in quello che sembra la funzione specifica del tutore stesso: la sua attività di “maestro”.

Si è detto, infatti, che è proprio l’insegnamento la sua funzione specifica, sia che ci si riferisca alla preparazione alla guerra, ad attività pratiche, o ad un’educazione etica e filosofica riguardante le potenzialità intime del giovane iniziando; ci si aspetta, allora, di rilevare sempre un atteggiamento protettivo del tutore, un insegnamento che sia svelato da pratiche per lo meno collaborative.

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Nella suddivisione dei personaggi di un mito tra amici ed oppositori del protagonista, questo porta a considerare il tutore tra i primi, e collocare invece tra i secondi tutti coloro che svolgono attività volte a contrastare l’eroe.

Questa classificazione è limitativa, in quanto pone indiscriminatamente tra gli oppositori anche chi, pur nella volontà di insegnare, utilizza pratiche che sembrerebbero essere vessatorie; ci si riferisce a tutte quelle prove che sembrerebbero, di primo acchito, creare difficoltà all’iniziando, ma che, in realtà, sono metodi per spronarlo a raggiungere livelli superiori delle sue qualità.

Utilizzando un’immagine dei nostri giorni potremmo dire che questo tipo di tutore assomiglia molto al sergente vessatore e cattivo (apparentemente) nei confronti delle reclute, così come ci è stato mostrato in tante opere cinematografiche, che rinuncia volontariamente alla riconoscenza degli uomini che sta allenando alla guerra, pur di convincerli che non dovranno mai sperare in altro aiuto che non siano le proprie capacità.

Questo fatto comporta che dovremmo vedere come tutori anche tutte quelle figure che appaiono come oppositori o nemici dell’iniziando, dai mostri che lo costringono alla lotta fino agli stessi elementi fisici o meteorologici che lo impegnano in prove fisiche (fiumi da attraversare, orride foreste, fulmini).

Tutto ciò che appare come “prova” è finalizzato all’insegnamento, rappresenta un elemento che ha come fine la trasformazione dell’essere brutale (inteso come “anima”) in essere evoluto e conscio delle proprie possibilità positive; che la forma sia quella vivente o quella di un elemento naturale tutto concorre all’insegnamento etico ed al rivelarsi di quell’aspetto dell’animo dell’uomo che James Hillman chiama daimon[3].

Questo modo di interpretare il tutore sembrerebbe sconvolgere la schematizzazione dei ruoli così come è stata descritta da Aarne e Thompson nella loro definizione dei ruoli stessi: gli oppositori sembrerebbero scomparire, in quanto diventano semplicemente un’altra faccia del tutore.

In realtà gli oppositori non spariscono, in quanto loro, anche nell’ipotesi di Aarne e Thompson, non sono il male, ma solo il modo di rappresentarlo concretamente; il male vero non sono i nemici, è la parte maligna del daimon, quella che l’uomo deve vincere.

Ancora una volta si può affermare che il male è dentro ogni uomo, non sta nel mondo esterno o negli altri individui della comunità.

Per quanto riguarda la vera e propria identificazione dell’immagine, le ipotesi appena espresse ci permettono di capire che le sembianze del tutore finiscono per essere innumerevoli, in quanto possono divenire la combinazione delle figure caratteriali viste: se un tutore assume sembianze femminili e, nel contempo, quelle di un oppositore, finisce per sfociare nella strega, nella làmia, nel demone acquatico metà donna e metà serpente, nella sirena divoratrice di uomini.

O, ancora, incrociandosi con l’essere animale, arriviamo alla Gorgone o, paradossalmente, ripiegando verso un essere divino (quasi, paradossalmente, volesse smentire quanto fin qui detto riappropriandosi della sua parte “buona”) può trasformarsi nelle Parche. Ed a complicare le cose, oltre che innumerevoli, le figure possono essere anche mutevoli, in quanto la variabilità con la quale si presenta il male (e la relativa prova da affrontare) può modificare l’aspetto del tutore all’interno dello stesso mito, della stessa fiaba, o dello stesso rito iniziatico.

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Questa interpretazione della figura tutoriale può condurre, indubbiamente, a compiere, ancora una volta, un errore di semplificazione: dall’immagine troppo semplice del tutore dalla quale siamo partiti e che abbiamo contestato (il maestro umano, sempre buono) rischiamo di passare ad una soluzione altrettanto troppo semplificata (tutte le figure sono tutori). In realtà, in conformità alla cautela che ci insegna l’analisi antropologica, quello che fa la differenza è, da una parte, il contesto del mito o del rituale con il quale si presenta l’argomento, dall’altro soprattutto l’atteggiamento con il quale l’iniziando affronta l’argomento stesso: è lui il protagonista, è lui a determinare chi sia il tutore attraverso la soluzione che applica alla prova a cui viene sottoposto.

In definitiva è lui che crea il suo daimon, e quindi è detentore del proprio futuro: è lui che definisce chi è tutore e chi non lo è.

Generalmente si pensa alla figura tutoriale come qualcosa legato alle popolazioni antiche, tutt’al più ai greci e latini. In culture in cui le forme delle divinità passavano con facilità da quelle con antropomorfia umana a quella animale, e nelle quali il politeismo era pratica comune secondo una gerarchia neppure troppo ufficializzata, era abbastanza facile identificare l’essere protettivo in un eroe mitico, in un proprio progenitore, o in un animale.

Erano culture in cui l’essere divino possedeva contemporaneamente aspetti positivi e negativi, secondo un’accettazione di teorie dualistiche che verranno combattute solo con l’avvento del cristianesimo.

Con quest’ultima religione, oltre all’aspetto dualistico, scompaiono completamenti i riferimenti non umani delle divinità; in una visione spirituale in cui dio si è fatto uomo, anche nelle sue caratteristiche fisiche) non è pensabile una divinità in forma animale. Il dio Pan, in cui la variabilità del carattere tutoriale era forse più evidente che in altre figure, viene combattuto così aspramente al punto tale da divenire la fonte principale dell’immagine del demonio.

Sono i santi del panorama cristiano a prendere il posto del tutore, uno per tutti l’angelo custode.

Il ricordo di queste figure rimane solo nelle fiabe, dal Grillo Sapiente di Pinocchio al Gatto con gli Stivali e, per quanto abbiamo detto, al lupo di Cappuccetto Rosso, anche se in una maniera spesso non ben capita.

È solo il folklore che li ricorda nella maniera forse più corretta: i tanti gnomi, coboldi, folletti, goblin delle leggende nord europee possiedono indubitabilmente un carattere ambiguo, sono dispensatori di favori ma, contemporaneamente, dispettosi e malevoli, a volte fino alla crudeltà. Nella stessa cultura questo carattere è tipico anche delle fate, contrariamente a quello che succede nell’area mediterranea.

Sono caratteristiche possedute anche dal mazapégul romagnolo, le cui tracce si possono ritrovare addirittura in figure presenti nell’Edda Poetica, o nella figura del dio etrusco Tages.

La cultura contemporanea sembra invece non aver bisogno della figura tutoriale, in quanto esprime già in maniera evidente i problemi esistenziali, li mette a nudo senza bisogno di elementi di paragone.

Forse è per questo che a volte ne crea di falsi, come i tanti “pseudo-guru” che infestano i mezzi di comunicazione, specie quelli più popolari.

[1] Si vedano gli studi sul totemismo di C. Levi Strauss.

[2] Per l’analisi della figura di Melusina si rimanda al lavoro QUADRISTORIA. Melusina, Lilith, Arlecchino e Pulcinella. Tradizioni popolari sulla famiglia in Romagna, mito e teatro, nell’ambito delle contrapposizioni e collaborazioni nella lotta tra i sessi, alla pagina Testi di questo stesso sito.

[3] JAMES HILLMAN – Il codice dell’anima – Milano, Ed. Adelphi, 1997.