Gli attuali fenomeni della globalizzazione complicano la comunicazione delle informazioni corrette, “quasi” come faceva, nel passato, il sincretismo.

È noto come in antropologia culturale si intenda per sincretismo quel fenomeno per cui alla figura di una tradizione antica viene sovrapposta quella di una figura relativa ad una tradizione successiva, spesso vincente nel rapporto culturale con quella antica; per avere successo la sovrapposizione deve avvenire, ovviamente, con figure che abbiano le stesse caratteristiche di comunicazione (o, diremmo oggi, mediatiche) sicché la sovrapposizione stessa risponda agli stessi bisogni consolatori. 

Il fenomeno è vecchio come il mondo; gli antichi romani, a contatto con la più raffinata cultura greca, assorbirono concetti filosofici e religiosi da quel popolo e trasformarono il dio greco Zeus nel latino Jovis (Giove), partendo probabilmente da un’antica divinità delle popolazioni centro italiche che aveva la caratteristica di essere il più importante tra tutti gli dei, ed al quale sovrapposero sia l’aspetto esteriore che le qualità della figura greca.

D’altro canto i greci avevano fatto la stessa cosa: Zeus altro non era che la trasposizione in territorio ellenico di una divinità sanscrita, Dieus (o Dius, o Diveus) la cui tradizione giunse in Grecia attraverso le migrazioni dei popoli indoeuropei mediata dalle culture del periodo del ferro che occupavano il bacino ad Ovest del Mar Nero.

Questo fenomeno ha in sé sia aspetti positivi che negativi.

Sicuramente contribuisce alla scomparsa di informazioni su antiche culture per le quali, subita una manipolazione ed una trasformazione di alcuni aspetti originari, ci è più difficile reperire dati autentici, ma solo quelli che si possono intuire da un processo interpolativo quanto mai ipotetico; d’altro canto possiede un aspetto positivo sulle popolazioni conquistate, che non vedono scomparire completamente i propri miti e le proprie tradizioni, ma riescono ad intuirli pur attraverso il filtro imposto dalla cultura dominante, fornendo loro, in tal modo, un senso di continuità che impedisce la completa disgregazione della loro cultura.

Se poi gli aspetti positivi siano tali da compensare quelli negativi è un altro discorso, sul quale, per il momento, non ci soffermiamo, ma che attiene comunque a considerazioni su cosa sia giusto o meno per i diritti dell’individuo, mentre qui ci interessa proporre e discutere su considerazioni antropologiche, anziché di giustizia sociale in senso più ampio; ci interessa solamente far notare che questo perpetuarsi di un’antica memoria delle proprie tradizioni, per quanto alterata dal modo di vivere delle culture dominanti, sembrerebbe quasi potersi paragonare alla presenza di anticorpi genetici che intervengono a risolvere problemi di “perdita della propria memoria storica” e rassicurare così una popolazione che la propria discendenza non scomparirà del tutto, ma continuerà a perpetuarsi attraverso un rimasuglio di tradizioni fino alla fine dei tempi (e, d’altro canto, a cosa anela l’uomo se non ad essere ricordato anche dopo la propria morte, se non altro nei racconti fatti dai suoi discendenti sulle proprie origini?).

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L’impero romano fu il primo caso di una struttura che assunse lo status di potere mondiale (per lo meno nel senso di “mondo conosciuto” in quel momento). In quel particolare istante Giove riassunse in sé le caratteristiche di tutti quelli che erano stati, fino a quel momento, i “dei padri” delle varie religioni. Fu il primo caso di sincretismo a livello mondiale.

Non pensiamo che questo fenomeno sia qualcosa che riguarda solo i tempi antichi. Ad un primo frettoloso esame, infatti, potrebbe sembrare che il fenomeno stesso sia terminato quando il cristianesimo ha sostituito, appunto con il sincretismo, una serie di figure del pantheon pagano con la gerarchia cristiana (le tante divinità femminili degli antichi – Isthar, Atena, Demetra – con la Madonna; le divinità silvane – Pan, Dioniso - con sant’Antonio Abate, quelle legate al miracolismo delle fonti con san Giovanni Battista, e così via).

Se questo è, in effetti, un fenomeno ormai concluso, ciò può dirsi solo per la religione, ma esiste un aspetto della cultura tradizionale che è continuato fino ai nostri giorni, e per il quali, a tutt’oggi, il fenomeno stesso non è ancora terminato, ed è quello che riguarda le figure laiche delle tradizioni, ossia i personaggi dei miti, delle favole, delle credenze popolari, ossia proprio quelle figure che gli antropologi indagano per analizzare i meccanismi legati agli aspetti più comuni dei rapporti sociali.

È indubbio, infatti, che se l’analisi delle figure e delle credenze religiose eseguite dagli antropologi rivestono un’importanza fondamentale per quanto riguarda gli aspetti più importanti dei rapporti sociali, l’analisi delle correlazioni amicali (tra persone o tra gruppi), dei meccanismi matrimoniali e filiali, del comportamento tenuto nelle relazioni commerciali, della comunicazione artistica, della trasmissione delle informazioni (oseremmo dire persino quelle particolari informazioni sociali che passano sotto il nome di “leggende metropolitane”) non possono non risentire da una serie di “figure simbolo non religiose” che sono patrimonio della cultura globale, e che sono tutt’ora presenti nella nostra cultura perché presenti, ad esempio, nella figura del monello di tante fiabe per bambini, del mostro cattivo nelle stesse fiabe, dello sciocco delle barzellette, della Befana e di Babbo Natale, della strega cattiva, del simbolismo che si fa degli animali da compagnia (nella vita quotidiana e nei film), degli stereotipi televisivi, dell’eroe secondo il metro della nostra attuale cultura.

Sono figure che esistevano anche nell’antichità, anche se dobbiamo fare mente locale per rendercene conto: l’eroe delle tragedie greche, o il suo contrario, il Miles Gloriosus di Plauto, era l’analogo antico degli eroi o antieroi del cinema e della televisione, il “gatto con gli stivali” di Perrault l’analogo degli animali amici di tanti film a cartoni animati, la Strenia latina quello della Befana, il latino genius cucculatus, o lo gnomo delle fiabe irlandesi, erano l’antesignano dell’angelo custode, e così via; ognuna di queste figure suggeriva un giusto modo di comportamento e contribuiva, assieme all’educazione classica, a fornire un modello sociale al quale attenersi per essere buoni cittadini.

C’è però, tra i due modi, antico e moderno, di trasmettere un modello comportamentale una differenza fondamentale.

Nell’antichità, stante una minore alfabetizzazione, una società tutto sommato molto più semplice per quanto riguarda la stratificazione sociale, una minore possibilità di ricevere informazioni da culture distanti dalla propria (anche dal punto di vista della distanza geografica) un minor disordine nel recepimento delle informazioni; inoltre i tempi di evoluzione sociale erano più lunghi, le persone latrici di informazioni provenienti da culture diverse erano poche e socialmente ben identificate (gli studiosi, i viaggiatori, coloro che erano stati insigniti di cariche ufficiali) che assicuravano, proprio a causa della loro posizione sociale, un livello di insegnamento certo e qualificato; in questo modo le nozioni di “culture altre” erano soppesate in un tempo maggiore, meditate e fatte proprie solo se si accettavano (un cittadino romano che abitava a Roma, poteva accettare o meno una tradizione venuta dai Galli, non dovendo convivere con loro in Gallia).

Oggi questa chiarezza nella valutazione delle informazioni, questa disciplina nella loro elaborazione ed eventuale accettazione non esiste più, o, per lo meno, è molto più difficile da realizzare, e tutto ciò per vari motivi:

  • il numero delle informazioni che arrivano alla grande massa del pubblico è enormemente superiore a quella del passato, provenendo da un numero tale di discipline che anticamente non era neppure immaginabile (politica, economia, arte, istruzione, informatica, scienze, discipline del lavoro, intrattenimento, medialità della socialità, pubblicità, tradizioni di culture “altre” portate dalle immigrazioni) ed è questa, naturalmente, una lista non esaustiva (il fatto stesso che per creare una lista di questo tipo sia necessario pensarsi un bel po’ chiarisce quanto sia complesso il fenomeno). Nell’antichità ci si interessava solo delle informazioni della propria categoria sociale, occupandosi di altre solo se si era personaggi pubblici.
  • gli individui portatori delle informazioni, conseguentemente a quanto detto al punto precedente, sono enormemente maggiori ma, soprattutto, non forniscono più la certezza sulla qualità delle informazioni stesse che, nel passato, era garantita dallo loro “chiara fama”. Molto spesso, oltre a questa mancanza, si può addirittura arrivare all’anonimato della fonte (è il caso di molte informazioni recepite attraverso i media – tra i quali la parte del leone la fa internet - ma anche stampa, cinema e televisione).
  • di pari passo con l’aumento quantitativo del livello di scolarizzazione si è avuto un abbassamento del livello qualitativo. Questo fatto non è una maledizione biblica inevitabile, come qualcuno continua a sostenere, ma dipende sia dalla decisione politica di allocazione delle risorse economiche (occorre stabilire priorità di valori) che dalla mancanza di un contradditorio basato sul dibattito pubblico.
  • i tempi richiesti dalla società per valutare, ed eventualmente accettare, informazioni nuove è notevolmente minore che nel passato, stante la maggiore velocità di cambiamento della società stessa. Oggi i cambiamenti tecnologici (soprattutto in discipline tecniche come l’elettronica e l’informatica) sono così rapidi che i tempi fisiologici di comprensione degli aspetti tecnico-scientifici non tengono il passo con le variazioni tecnologiche, per cui si è inevitabilmente costretti a specializzarsi solo su alcuni aspetti del cambiamento e non su altri; si arriva così a persone che sono perfettamente allineati con le conoscenze informatiche ma che non sanno nulla (non hanno avuto fisicamente il tempo di aggiornarsi) sull’economia, sulla storia politica e sociale del proprio paese, o sull’arte.

Mentre il corso di istruzione obbligatoria aiuta a disciplinare le proprie conoscenze sugli aspetti fondamentali della società (ossia obbliga più o meno tutti a saper leggere, scrivere ed ad utilizzare le basi minime della matematica) non riesce a fornire la stessa disciplina per quegli aspetti che, in confronto ai fondamentali, possiamo definire “minimi”, ma che sono comunque importanti per creare un cittadino intelligente, aspetti in base non si possa essere presi per il naso da chi ritiene da essere portatore della cultura in toto.

A questo riguardo gli esempi potrebbero essere tanti, ma occupandoci, su questo sito, di questioni riguardanti l’antropologia culturale e le tradizioni, ci limiteremo ad un solo esempio che riguarda un aspetto dei nostri ricordi infantili.

Un articolo su internet, riguardante la Befana, riportava le seguenti informazioni (qui condensate per necessità di spazio):

…. Non bisogna confondere la Befana con le streghe, di matrice prettamente Halloweeniana. Una Befana vera, infatti, non ha il cappello a punta, come spesso appare …. usa un fazzolettone di stoffa pesante …. ha una scopa …. ma la Befana cavalca la scopa al contrario delle raffigurazioni di streghe, e cioè tenendo le ramaglie davanti a sé….

Non ci è noto dove l’autore di questo testo abbia reperito le sue informazioni ma, alla luce delle conoscenze ed analisi delle tradizioni popolari (antiche e moderne) è possibile far notare le seguenti imprecisioni, che potrebbe fare anche uno studente di antropologia culturale ai primi anni di corso:

1) La figura della strega non ha niente a che vedere con la tradizione di Halloween; nasce da rapporti conflittuali all’interno della società tra “regolari” ed “esclusi”, e si innesta poi nelle lotte religiose tra tradizionalisti cristiani ed eretici, aggravata dal desiderio di reprimere l’emancipazione femminile. Halloween è una filiazione del “corteo dei morti ritornanti” e, per quanto oggi conosciuto sopratutto per i suoi aspetti commerciali, obbedisce alla necessità di fornire codici di comportamento sociale (come lo charivari, o le medioevali “feste dei folli”, i mamutones sardi, o i pasqualotti romagnoli). La stregonismo appartiene ai riti “repressivi”, mentre Halloween a quelli “legislativi”.

2) Le streghe non avevano un cappello a punta (è un’immagine seicentesca nata dalla tradizione iconografica americana, che si rifaceva all’abbigliamento tipico del periodo dei processi di Salem). Le streghe sono note fin dal tempo dei romani (le ricorda Apuleio, chiamandole Lamie, ed Ovidio ricorda le streghe Sagana e Canidia) e sicuramente allora i cappelli a punta non esistevano.

3) Non ci sono note immagini di Befane che cavalcano la scopa … tenendo le ramaglie davanti a sé… Probabilmente questa affermazione nasce da un’errata interpretazione del fenomeno detto “dell’inversione”, riportato nelle cronache dei processi dell’Inquisizione, che ricordava l’uso di strumenti, da parte degli adoratori del demonio, usati “al contrario” di come si utilizzavano nel cristianesimo (candele nere al posto di quelle bianche, fette di rapa al posto dell’ostia, ecc..).

Insomma, una descrizione nata da un coacervo di false interpretazioni, concetti mal digeriti, che ha l’unico risultato di creare confusione, mischiando realtà storiche con informazioni scorrette.

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Probabilmente oggi la maggior parte delle persone ritiene che la Befana sia nata da una interpretazione addolcita della strega. Tra l’altro questa immagine contraddice proprio quanto sostiene il brano riportato sul modo di inforcare la scopa.

Naturalmente non è nostra intenzione colpevolizzare chi ha scritto queste note sulla Befana; potrebbe trattarsi di frasi riportate con l’unico scopo di raccontare una favoletta a dei bambini, o comunque potrebbero non avere necessariamente il desiderio di insegnare qualcosa, e questo va benissimo: il fatto è che il sistema di messa in circolazione di certe idee, senza controllo, senza un contradditorio, pur rappresentando un valore positivo per la libera circolazione del pensiero e il processo di democratizzazione dell’informazione, finisce per essere accettato come una verità inoppugnabile e creare, invece, un errore inoppugnabile; né si vuole sostenere, naturalmente, quanto “fossero migliori i tempi antichi”.

Si vuole far notare semplicemente che l’evoluzione sociale non rappresenta, sempre e necessariamente, un miglioramento del nostro modo di comunicare, ma che può succedere il contrario, complicando la vita dei colleghi gli antropologi culturali, e che si occupano, anziché dell’uomo antico, di quello moderno: i sociologi.