Le sepolture cosiddette “anomale” possono veramente essere definite tali?

Da diverso tempo gli storici e gli antropologi stanno prendendo in considerazioni alcuni tipi di sepoltura che, a causa dei riti utilizzati per eseguirle, vengono definite “sepolture anomale” (deviant burials nella letteratura anglosassone). 

Ci riferiamo a quelle sepolture la cui analisi mostra che il cadavere ha subito modificazioni nella struttura fisica (amputazioni degli arti inferiori o superiori, oppure del capo, fratture delle ossa femorali o delle braccia) o è stato sottoposto a particolari forme costrittive dopo la morte (legature del corpo, fissaggio sul terreno con chiodi metallici o di legno, oppressione del corpo – o di parte di esso – con elementi pesanti, come grosse pietre o pesanti manufatti).

Tali sepolture vengono definite “anomale” in quanto questi aspetti sembrano farle differire da sepolture ritenute invece “normali” in quanto tali aspetti sono mancanti; però il concetto di anomalia, probabilmente per il significato che usualmente questo termine ci trasmette, finisce per creare una categoria mentale: si pensa immediatamente che queste tombe siano state realizzate per trattenere il defunto nel suo luogo di sepolture, per impedirgli cioè di tornare nel mondo dei vivi, mentre quelle “cosiddette normali” si ritiene non abbiano questo significato.

Ora, se la prima parte di questa affermazione è vera, non è vera invece la seconda: anche le sepolture normali dovevano trattenere il defunto, quindi la differenza non sta nella mancanza o meno della manipolazione o costrizione del corpo, ma nella misura con la quale la essa viene effettuata.

Tra i due tipi di sepolture c’è solo, quindi, una differenza di “quantità” più che di “qualità”.

Occorre, infatti, tenere presente che il rispetto del corpo del defunto è un concetto relativamente recente nella cultura umana (parlando evidentemente di misura del tempo in senso evolutivo) ed è rimandabile a momenti in cui si era già sviluppato il senso religioso e, soprattutto, la credenza della sopravvivenza dopo la morte di un’entità che in qualche maniera non poteva essere disgiunta dalla sua spoglia umana; in altre parole la “vita eterna” era possibile solo se il corpo che si lasciava sulla terra non aveva subito ingiurie tali da renderlo inadatto a contenere nuovamente un afflato vitale.

Tracce di questa mentalità si ritrovano ancora, per esempio, nel credo cristiano, che fa nella resurrezione dei corpi uno dei punti cardine della sua teologia; tracce antiche si trovano invece nelle tradizioni, presenti in tutte le culture, dello smembramento e nella dispersione dei cadaveri dei nemici attuato per l’obiettivo opposto.

Quando si era ancora lontani da questo principio di pietà per il corpo, ciò che si provava per i cadaveri era soprattutto un senso di paura, paura che può essere analizzata sotto diversi punti di vista.

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Un esempio di sepoltura cosiddetta anomala: il capo del morto è stato reciso e posto tra i femori.

Innanzitutto l’uomo primitivo intuiva in un corpo morto qualcosa di psicologicamente diverso da sé stesso: un elemento inanimato era qualcosa che negava la vita, e proprio l’essere in vita faceva la differenza con la sua percezione della “verità dell’essere” (sono vivo, quindi sono una persona; solo le pietre sono naturali anche se non possiedono la vita). In secondo luogo il morto finiva per abitare quel particolare luogo non terreno, quel luogo liminare tra la realtà concreta ed il mondo superiore che egli riteneva pauroso. Era il luogo che poteva vedere nei propri sogni (chi non ha mai sognato un congiunto deceduto?) ma che non poteva essere raggiunto da nessun vivente. Quindi il morto aveva questa capacità che il vivo non possedeva, e pertanto gli era conferita una caratteristica superiore, magica, della quale, come tutte le cose che non potevano essere dominate, aveva un sacro terrore. Il concetto, poi, che il morto, non potendo più godere dei benefici della vita mortale, che potesse essere invidioso di coloro che rimanevano sulla terra, faceva il resto.

Si riteneva che i morti anelassero a ritornare nel mondo dei vivi, e che, non riuscendovi, potessero sfogare la loro rabbia proprio su quelli che rimanevano in vita.

Pertanto si ricorreva a un comportamento ambiguo nei loro confronti: da una parte si tendeva a mettere in atto tutte quelle azioni che impedissero al morto il ritorno nel mondo dei vivi, dall’altra si cercava di “convincerli” che il luogo in cui si trovavano non era poi così diverso dalla loro abituale dimora terrena.

Gli esempi di questi due comportamenti sono innumerevoli, e ne abbiamo ancora tracce nei rituali funebri. Ne ricordiamo solo alcuni: per impedirgli il ritorno si faceva percorrere al corteo funebre un percorso tortuoso, spesso passando per incroci di strade (nella convinzione di far perdere l’orientamento al defunto) si bendavano gli occhi del cadavere, le sepolture erano lontane dalle abitazioni dei vivi.

Per convincerli che la loro nuova dimora non era diversa da quella abituale si ponevano oggetti personali nella tomba, ci si recava nel luogo di sepoltura a conversare di problemi quotidiani, come se ci si trovasse ancora tutti attorno al desco famigliare.

Tra i metodi per impedire il ritorno c’era anche quello, indubbiamente, di ricoprire la tomba con pesanti pietre; non si spiegherebbe, altrimenti, l’utilizzo di massi e lastre di pietra in misura francamente eccessiva alla semplice necessità di ricoprire la tomba con l’unico lo scopo di proteggere il cadavere. Lo studioso di tradizioni Anselmo Calvetti riteneva che quei dolcetti noti come le “fave dei morti” altro non fossero un’atavica rappresentazione della pietra tombale; i dolci erano già presenti ai tempi degli antichi romani, con il nome di oblìae.

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Una tomba interrata. Il pesante coperchio della tomba ed il pietrame sembrano voler impedire l’uscita del morto più che proteggerne le spoglie.

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Altri esempi di metodi costrittivi utilizzati nelle tecniche funerarie.
Sopra un cadavere proveniente da una tomba sudamericana (cultura precolombiana) completamente avvolto da corde.
Sotto, un reperto neolitico: il cranio risulta perforato da un chiodo utilizzato per fissarlo al terreno.

D’altro canto tutta la letteratura etno-antropologica che ci rimanda i riti del ritorno dei morti, dalla nordica “caccia selvaggia” fino ai riti tradizionali locali (mamutones in Sardegna, krampos nei paesi alpini, zidalkos nei Pirenei, pasqualot in Romagna, fino ai più famosi riti che trovano in Halloween l’ultimo avanzo storico) altro non sono che riti per esorcizzare la paura dei morti ritornanti, verso i quali si eseguono atti di blandizie: i morti dovrebbero rimanere dove sono, magari convincendoli che con la morte non è cambiato niente; se poi dovessero ritornare bisogna ricordarsi di trattarli con benevolenza.

Tra l’altro l’uomo di quel periodo non dimenticava che i morti, nelle loro tombe, erano parte di quel mondo sotterraneo che si trovava a stretto contatto con la vegetazione, le sementi che dovevano produrre le piante, le acque, e quindi avrebbe potuto interagire negativamente con queste cose nel caso si fosse voluto vendicare dei vivi.

L’ultimo elemento che può essere preso in considerazione per valutare questa ipotesi è l’eterna e indiscutibilmente universale diffusione della paura che ognuno di noi, che lo si voglia ammettere o no, continua a provare per i morti, retaggio di migliaia di anni di questa persistente mentalità.

Quindi, più che di “sepolture anomale” sarebbe più giusto parlare, in questi casi, di “sepolture eccessive” nel senso che gli atti di manipolazione e costrizione assumono caratteri nevrotici ed, appunto, eccessivi.