I meccanismi di identificazione dell’ «altro» ed i fenomeni di rifiuto sono più pericolosi nei ceti ad alto livello culturale.

È noto agli specialisti di zoologia che un animale non aggredisce nessuno (un altro animale o l’uomo) a meno che non veda in questo qualcosa che attenta alla sua sopravvivenza; anche il leone più feroce non balzerà su qualcuno (o qualcosa) senza questo stimolo. 

Naturalmente è bene chiarire che il termine “attentato alla sopravvivenza” viene interpretato dall’animale secondo una sua personale analisi della situazione, che è completamente diversa da quella umano; così che se un leone, anche non affamato, vedesse una gallina (che magari non ha mai visto) può decidere di aggredirla perché ritiene che quell’essere sconosciuto possa avere delle caratteristiche a lui ignote, forse letali nei suoi confronti, ed obbedisce quindi ad uno stimolo primario fondamentale: “prima” mettersi in sicurezza “e poi” valutare con calma la situazione, e mettersi in sicurezza significa mettere l’essere sconosciuto in grado di non nuocere, magari uccidendolo.

Esperimenti condotti su animali selvatici mostrano che un felino si getta con forza anche su un oggetto qualunque, purché questo gli sia sconosciuto (una palla, un barattolo, una scatola di cartone, se messi in movimento in qualche modo); non succede invece quando l’oggetto, anche se in movimento, gli è noto (il ramo di un albero, un altro animale purché ad una distanza che il felino consideri “di sicurezza”).

Le diverse fasi di attenzione dell’animale sono schematizzate in Fig. 1[1].

Un oggetto ritenuto sconosciuto, nelle varie posizioni di avvicinamento all’animale selvatico, è rappresentato dai vari punti numerati:

1 – l’animale, pur vedendo l’oggetto, rimane indifferente.

2 – è stata oltrepassata una soglia (indicata dall’arco di cerchio) che definisce il primo segnale di allarme: l’animale si pone in semplice attenzione, cercando di capire se deve attaccare o fuggire; il livello adrenalinico comincia ad alzarsi.

3 – superata una nuova soglia l’animale si appresta alla difesa. L’adrenalina ha un nuovo picco.

A questo punto si possono verificare due diverse situazioni: se l’oggetto si avvicina lentamente, con una velocità tale da permettere l’azione dell’animale selvatico, quest’ultimo si avvicina all’oggetto ignoto pronto a “bloccarlo” (punto 4) senza tentare di ucciderlo (a meno che non valuti, durante l’avvicinamento, che le dimensioni siano tali da decidere per l’aggressione mortale); se invece l’oggetto sconosciuto è così veloce da riuscire ad avvicinarsi talmente all’animale così da entrare così nella sua “sfera privata”, quest’ultimo passa direttamente all’aggressione mortale (punto 5); il livello di adrenalina è al massimo.

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FIG. 1.
Il comportamento di un animale selvatico nei confronti della distanza da un elemento sconosciuto:
1 – indifferenza
2 – attenzione
3 – preparazione all’azione
4 – azione per fermare l’oggetto
5 – azione per distruggere l’oggetto*
*Le distanze delle varie zone di influenza sono indicative.

Naturalmente il processo, qui sommariamente indicato, può subire molte varianti in funzione delle speci animali, delle situazioni di luce, ecc…, ma le infinite possibilità sono sempre dettate dall’attenzione alla propria sopravvivenza; anche la decisione di un leone di mangiarsi la gallina di cui sopra, se affamato, risponde all’esigenza di sopravvivere: nonostante la sua valutazione che la gallina non è assolutamente un pericolo, non mangiarla rappresenterebbe la possibilità di morire di fame, quindi anche in questo caso c’è in ballo, ancora una volta, la sopravvivenza.

Questa premessa, che può apparire anche troppo lunga, è però necessaria per analizzare meglio il comportamento aggressivo dell’uomo moderno, perché anche la specie umana, nei suoi comportamenti fondamentali, non fa altro che ripetere quelle azioni di difesa che lo accomunano agli animali; il nostro cervello limbico (la parte più antica del nostro sistema neurologico) rimane in buona parte simile a quello dei nostri predecessori.

Chiarito che in questo lavoro intendiamo occuparci di quell’uomo moderno, europeo o cinese, libanese o polacco, ma che vive ormai secondo paradigmi occidentali, è facile verificare che questo uomo, sia esso un taglialegna delle foreste finlandesi o un impiegato in cravatta e bombetta della City di Londra, tende a comportarsi secondo la stessa logica nei confronti degli sconosciuti.

Quindi all’inizio avremo la fase di identificazione del soggetto (da qui in avanti ci riferiremo infatti solo a rapporti tra persone) e successivamente le fasi di fuga o di rapporto diretto (violento o pacifico).

Gli uomini antichi, che non avevano più i sistemi di percezione così raffinati degli animali, dovevano rifarsi a segnali ben rappresentativi; dando per scontato che un altro essere era sempre e comunque considerato un competitore, per lo meno per gli alimenti (ricordiamo che il termine “rivale” viene dal latino rivus – fiume – ossia colui che, sulla riva opposta del fiume, consuma la “nostra acqua”) era necessario identificarlo se appartenente allo stesso gruppo tribale o meno. Quindi, nel caso non fosse una persona conosciuta, si esaminavano la struttura fisica (altezza, colore dei capelli, ecc…) poi i suoi indumenti, le eventuali pitture facciali e corporee, ossia tutto ciò che appare evidente alla vista.

Ma ad identificare qualcuno possono essere anche i suoi comportamenti, le sue abitudini, il linguaggio: se questi apparivano “estranei” al comportamento usualmente accettato, lo identificavano come uno “straniero” (i termini “straniero” ed “estraneo” hanno evidentemente la stessa origine dal vocabolo “strano”, proprio perché “strana” viene giudicata una persona che non si comporta secondo le nostre regole di vita).

Anche oggi questo comportamento non è cambiato: la donna anziana che si ritrae incrociando un giovane barbuto con occhiali scuri, vestito di indumenti in pelle ricoperti di borchie metalliche, o la massaia che evita di incrociare lo sguardo di un uomo dalla pelle scura e dallo strano vestito a tunica, hanno entrambe valutato i due personaggi inquadrandoli in precisi gruppi sociali e giudicandoli come coloro che hanno un’abitudine di vita completamente diverso dalla loro, che naturalmente non è necessariamente quello giusta, ma quella che è stata trasmessa dal loro bagaglio culturale.

Se i primitivi si identificavano con abbigliamenti e simboli (lo stesso totem, al di là del suo significato antropologico più profondo, era anche un simbolo di appartenenza ad un gruppo ben preciso) noi guardiamo, analizziamo e prendiamo decisioni in base agli stessi segnali: abbigliamento, linguaggio, comportamento; anche noi abbiamo i nostri totem (la bandiera, il gagliardetto di una squadra di calcio, l’automobile di lusso) che ci identificano come appartenenti ad una nazione o ad un definito ceto sociale.

A questo punto, prima di parlare della fase che viene immediatamente dopo quella di identificazione, ossia la fase di rapporto diretto, occorre precisare la valenza attuale del termine “timore per la propria sopravvivenza”, che abbiamo visto essere il motore di questi meccanismi; infatti, a differenza di quanto succedeva nel passato, oggi questa paura è basata solo in piccola parte dal timore di perdere “risorse” (anche se questo termine deve essere adattato ad un concetto più moderno) ed in massima parte alla paura di non riuscire a mantenere un certo “stile di vita”.

Relativamente alle risorse occorre dire che attualmente non vengono più identificate nel cibo puro e semplice (sempre in riferimento alla cultura occidentale) ma piuttosto nell’energia (petrolio) negli spazi vitali (beni immobiliari, disponibilità di acqua ed aria libere da inquinamento) ecc…; invece relativamente a quanto abbiamo definito “stile di vita” non parliamo di quello che potremmo forse definire meglio come “tenore economico della propria esistenza” (che, tutto sommato, è più ascrivibile alle risorse come sopra definite) ma ad una vita basata su un modello che si è consolidato nei secoli e che sentiamo come tipico della nostra cultura.

È la mancanza di questo modello, o tutto ciò che attenta alla sua realizzazione, che l’uomo moderno sente come un pericolo alla sua sopravvivenza, identificata nella sopravvivenza del gruppo al quale ritiene di appartenere.

Quindi ogni volta che un rivolgimento culturale importante modifica lo stile generale di vita, buona parte della popolazione lo sente come una modifica di quel modello che fino a quel momento lo ha “rassicurato” della correttezza della sua scelta; sente che vengono a meno i capisaldi della sua cultura e si ritrova spaesato, di fronte ad abitudini, comportamenti e problematiche che fino a quel momento non gli si erano mai presentate.

Quando si identifica una persona estranea al gruppo, e non esiste la conoscenza delle sue abitudini, si immagina prima di tutto il peggio (fenomeno tipicamente rimandabile al nostro cervello “animale”: mi metto in guardia, per verificare se posso fare qualcosa per difendermi da questa cosa che potrebbe crearmi problemi); nel caso in cui questa “non conoscenza” persista (magari perché non c’è tempo, o possibilità, per approfondire le modificazioni culturali in atto) permane l’idea primaria (autodifesa animale) che essendo appartenente ad un altro gruppo le sue abitudini devono essere necessariamente diverse dalle nostre: (“… se fossero come le nostre apparterebbe al nostro gruppo!..” ) è il classico ragionamento.

Questo fenomeno porta, purtroppo, ad un atteggiamento sempre più deleterio mano a mano che aumenta il livello culturale, contrariamente a quello che potremmo credere, come vedremo analizzando il lavoro di Maslow.

Lo psicologo statunitense Abraham H. Maslow, nella sua teoria sulla gerarchizzazione dei bisogni[2], definì una scala prioritaria di tali bisogni, a partire dai più elementari e fisici (i bisogni fisiologici) fino a quelli via via superiori e psicologici (ved. Fig. 2).

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FIG. 2.
La cosiddetta “Piramide di Maslow” definisce i bisogni dell’uomo a partire dai più elementari a quelli considerati più cerebrali. Tali bisogni sono ovviamente dipendenti dal livello di acculturazione, e tendono verso l’alto in funzione di questa. La larghezza del triangolo affiancato (la “piramide”) in corrispondenza di ogni singolo “bisogno” indica il numero delle persone che sentono la necessità di quello stesso bisogno.

Come è chiaramente indicato dallo schema riportato e che, dalla pubblicazione di questi studi in poi fu universalmente chiamato “Piramide di Maslow”, risulta evidente che, dopo le necessità fisiologiche, l’uomo, più è acculturato, più è interessato a soddisfare bisogni come la stima e l’auto realizzazione che questioni come il tenore di vita.

Questo fatto, anche se può sembrarci evidente, ha, in funzione di quanto abbiamo visto, un riflesso molto particolare; passando dalla fase di identificazione a quella di azione ci sono due possibilità: la “fuga” (ossia tenere sè stessi lontano dagli estranei, che sono però liberi di tentare, con le proprie abitudini, uno sconvolgimento culturale) oppure “l’isolamento” (tenere l’estraneo lontano da sè e dal proprio gruppo, impedendogli di modificare il modello culturale attuale); quasi inutile ricordare che l’isolamento di una minoranza conduce inevitabilmente alla criminalità; basti pensare alla nascita della malavita organizzata da italiani, irlandesi ed ebrei durante gli anni “20 del secolo scorso negli Stati Uniti, nascita ormai riconosciuta da tutta la storiografia nell’isolamento di tali minoranze dal modello sociale imposto dalla classe dominante di origine anglosassone[3].

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Le organizzazioni criminali trovano fertile terreno in ambienti degradati, prodotti da fenomeni concreti (mancanza di lavoro e di spazi abitativi) e da altri di tipo sociale (emarginazione). La criminalità, soprattutto se espressa con ritualità che rimanda alla propria tradizione culturale, deve essere considerata come un mezzo di aggregazione sociale.

Per le persone di bassa acculturazione (vedi i livelli più bassi della Piramide di Maslow) i cui bisogni di riferimento sono “sicurezza” e “appartenenza”, ad entrambe le soluzioni (fuga e isolamento) si cercheranno soluzioni che non hanno grosse implicazioni con la propria etica: si ricorrerà a metodi passivi, che vanno dall’impedire allo straniero l’inserimento nei circoli sociali, nelle associazioni sportive, nelle scuole, fino all’installazione di sistemi antifurto nelle abitazioni. Inoltre queste persone faranno generalmente riferimento ad un gruppo politico ben preciso, affidandosi alle decisioni di un capo (o un gruppo dirigente) che, eventualmente, è in grado di tenere sotto controllo le derive più pericolose.

Ma per quelli più acculturati l’inconscio non può fare a meno di imporre le proprie regole, e quindi questi, anche se dichiaratamente disposti ad accettare lo straniero, non mancano di sentir venir meno la propria stima e l’autorealizzazione; nonostante ritengano di poter accettare “l’altro” nasce in loro un senso di frustrazione che non è facile superare (indicativo di questo fenomeno è stato il personaggio del padre della ragazza che intendeva sposare un uomo di colore nel famoso film di S. Kramer Indovina chi viene a cena?).

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L’incubo di ogni sostenitore del modello occidentale. Conscio o inconscio che sia il fenomeno, l’accettazione di paradigmi diversi da quelli usuali è sempre difficile da accettare, anche per le persone più acculturate.

In genere è proprio da queste persone che finiscono per nascere le maggiori difficoltà all’accettazione, fenomeno più grave di quello delle persone poco acculturate proprio perché inconscio, nascosto, impercettibile e quindi difficilmente gestibile dallo stesso soggetto che ne è vittima.

Inoltre, proprio perché questo aspetto attiene alla sfera privata, il fenomeno non si esteriorizza in un movimento politico, e quindi sfugge alla possibile attività mediatrice di un leader o di un gruppo al potere.

Ci si chiederà il perché si è trattato un argomento come questo, che sembra più tipico della sociologia che dell’antropologia.

Al di là del fatto che le due discipline studiano, in realtà, lo stesso soggetto (l’antropologia culturale indaga i rapporti con gli altri individui nell’uomo antico, la sociologia quegli stessi rapporti nell’uomo moderno) potrebbe capitare ad un antropologo di dover analizzare riti di antiche società che a prima vista sembrerebbero dovuti a fenomeni funzionali (Malinowski) o strutturali (Levi–Strauss) mentre sono semplicemente dovuti a fenomeni di mancata accettazione dello straniero.

Nel considerare quest’ultimo fenomeno bisognerà tenere presente che non è altro che un riflesso della mancata accettazione del diverso, fenomeno che, se non risolto, conduce inevitabilmente alla paura, poi al panico, stadi iniziali della disgregazione sociale.

[1] I. RODAN, S. HEALTH: Feline Behavioral Health and Welfar, Edition Elsevier, 2015.

[2] La teoria di Maslow fu anticipata fin dal 1954 in una serie di articoli per riviste universitarie, e pubblicata in maniera completa nel 1962 nel lavoro Toward a Psycology of Being.

[3] Possiamo ricordare un paio di lavori su questo argomento: C, PANARELLA, JAMES B. JACOB, Busting the Mob: United States vs. Cosa Nostra, NYU Press, 1996; LAURENCE M. SALINGER, Encyclopedia of white-collar & corporate crime, SAGE Publication, 2005.