TARXIES
Naturale ed innaturale
- Renato Cortesi
- Categoria: Argomenti
Esistono criteri per definire il comportamento umano attraverso questi termini?
“Naturale” ed “innaturale” sono parole nelle quali ci si imbatte tutti i giorni nel linguaggio comune e, come accade per molti termini dell’uso quotidiano, sono spesso usati in maniera non sempre corrispondente al loro significato originale[1].
In antropologia culturale, come, d’altro canto, in tutte le discipline sociali, è necessaria una corretta valutazione dei limiti entro i quali i due termini possono essere applicati, dato che proprio la “naturalità” (o la “innaturalità”) è spesso l’elemento discrimine per la valutazione dei comportamenti sociali; troppe volte un antropologo è costretto ad arrestarsi trovandosi di fronte ad un’azione che ritiene non derivante da un comportamento indotto dai mezzi che ci sono stati forniti dalla natura, ma da elementi che invece considera artificiali.
Ciò che è stato detto fino a qui parrebbe fornirci un primo criterio di differenzazione che, è però necessario precisare, è di tipo “qualitativo”, e come tale meno facile da applicare di uno “quantitativo” (come decidere, per esempio, quale di due edifici è più alto, cosa facile da verificare usando uno strumento sicuramente obiettivo come il metro).
Secondo questo metodo qualitativo tutto ciò che l’uomo trova (ed utilizza) in quanto fornito dalla natura dovrebbe essere naturale, ed altrettanto naturali tutte quelle azioni che è in grado di compiere attraverso questo oggetto.
In base a questo criterio è sicuramente naturale una conchiglia utilizzata da un uomo primitivo per dissetarsi, ma come dobbiamo considerare allora un’ascia paleolitica, realizzata legando un bastone ad una pietra mediante una striscia di pelle animale? Gli elementi che la compongono sono indubbiamente forniti dalla natura; il contributo umano si è limitato ad un ragionamento opportunistico (la legatura della pietra con il bastone) ed anche questo contributo è naturale, essendo il prodotto del cervello umano: le sinapsi del suo sistema nervoso hanno elaborato un’idea che, successivamente, si è trasformata in un insieme logico e coordinato di movimenti necessari a realizzare la legatura ed ha realizzare quindi uno strumento.
Se accettiamo il principio che anche ciò che ci viene dal ragionamento (in poche parole dal processo di acculturazione) è da considerarsi naturale, non è difficile passare dall’ascia all’arco, poi alle spade ottenute per forgiatura, fino ad arrivare ai moderni fucili che altro non sono, in definitiva, che oggetti composti da prodotti forniti dalla natura (legno, metalli, zolfo e carbone per realizzare la polvere da sparo) messi insieme dopo un processo di affinazione di tecniche costruttive durato millenni, e che dopo infiniti e ripetuti tentativi hanno permesso di arrivare ad un prodotto che risponde al meglio a quello che era lo scopo di quel primo uomo che ha usato l’ascia: colpire un animale, o un avversario, cercando di fargli più male di quanto l’animale, o l’avversario, possa fare all’uomo.
Quel nostro progenitore che per la prima volta sollevò una grossa pietra facendo leva con un bastone ha indubbiamente utilizzato elementi naturali, anche se poi Archimede ne ha dato una spiegazione scientifica che ci ha permesso di arrivare alle ruote dentate (che come sanno anche gli studenti di meccanica alle prime armi basano il loro funzionamento proprio sul principio della leva). Dobbiamo allora considerare artificiale uno strumento come le forbici, o lo schiaccianoci, che si basano anche questi sullo stesso principio?
Alla luce di questi fatti sembra proprio che la strada per cercare un criterio separativo non possa passare attraverso la valutazione degli oggetti costruiti e utilizzati dall’uomo.
Si può tentare di trovare allora una diversa soluzione confrontando il comportamento umano con quello degli animali: poiché generalmente si da per scontato che il comportamento animale non possa, per definizione, essere considerato artificiale, potrebbe definire il criterio cercato.
Ma anche in questo caso ci si imbatte in diversi esempi che sembrerebbero escludere questa strada.
Il gipeto (Gypaetus barbatus Linnaeus, un uccello rapace conosciuto con il nome popolare di "avvoltoio degli agnelli") è noto per lasciar cadere le ossa delle carcasse di animali morti da grandi altezze per frantumarle e nutrirsi del midollo[2]; della cinciarella (Cyanistes caeruleus) si parlò molto negli anni “50 quando in Inghilterra fu pubblicato uno studio sul suo comportamento: aveva imparato ad aprire i tappi delle bottiglie di latte, realizzati con un sottile foglio di alluminio, con ripetuti colpi di becco, così che poteva poi berne il contenuto.
L’animale che più ci somiglia, lo scimpanzé, introduce sottili rametti nei termitai, poi li estrai coperti di termiti per cibarsene.
E se in questi casi l’utilizzo di metodi e strumenti sono, tutto sommato, simili al comportamento dell’uomo che si disseta utilizzando una conchiglia, metodo che non abbiamo difficoltà a ritenere naturale, che dire dell’uccello sarto (Orthotomus derbianus) che costruisce il nido “cucendo assieme” letteralmente i bordi di una foglia, che poi viene riempita di sterpi e lanugini per costruire il nido?
Il metodo dell’uccello sarto è, in tutto e per tutto, simile a quello dell’uomo che mette insieme pietra e bastone “cucendoli assieme” con una striscia di pelle.
Questi pochi esempi (e molti altri se ne potrebbero trovare) chi mostrano quindi che anche questo criterio non è utilizzabile per cercare l’elemento che discrimina il comportamento naturale da quello artificiale.
A questo punto è bene ricordare che il problema di definire esattamente l’ambito dei due diversi comportamenti è sorto, almeno secondo i criteri moderni, abbastanza tardi nel tempo; fin verso la fine dell’alto medioevo questo problema non era particolarmente sentito, e tutto ciò che si notava nell’ambito del mondo fisico era ritenuto, tutto sommato, come naturale: “Qualunque opera è opera del creatore, opera della natura o dell’uomo artefice che imita la natura”[3] scriveva attorno al 1140 il filosofo Guglielmo di Conches, seguace della filosofia scolastica.
Fu quando l’alchimia cominciò a diventare un fenomeno socialmente influente[4] che si cominciò a pensare che esistevano prodotti costruiti dall’uomo che non erano naturali: i primi medicamenti ottenuti dagli erboristi, o certi strani intrugli che cambiavano forma e colore se sottoposti all’azione del fuoco, facevano pensare più ad un’opera di magia che al risultato di processi naturali.
L’uomo aveva alle spalle un passato in cui i fenomeni magici aveva inciso pesantemente sull’immaginario, per quanto gli stessi fenomeni fossero relegati in ambiente mitologico; vedere realizzati sotto i propri occhi fatti che avevano del prodigioso sembrava trasportare nel mondo reale eventi che fino ad allora erano stati solo immaginati: una cosa era vedere un pezzo di legno che sotto le mani di un artigiano si trasformava in un tavolo, un’altra era assistere all’effervescenza di un bicchiere d’acqua quando vi si versavano strane polveri: nel primo caso si assisteva, passo per passo, alla trasformazione della materia prima, e si era in grado di capire il significato di ogni fase del lavoro artigianale, anche se non lo si sapeva compiere; nel secondo non si capiva il procedimento, si passava unicamente dalla prima all’ultima fase senza poter assistere (e capire) tutto ciò che conduceva al risultato finale: il tutto induceva a pensare che il fenomeno avvenisse per un fatto magico, e quindi innaturale.
Il concetto che tutto quello che non si riesce a valutare con i propri sensi e con le leggi meccaniche più semplici e facilmente interpretabili sia “anormale” è rimasto un patrimonio comune dell’uomo: la chimica, la biologia, la fisica corpuscolare, sono discipline che, per quanto si sappia che esistano ed abbiano spiegazioni naturali, sfuggono alla comprensione immediata umana, anche oggi, e poiché non si crede più alla magia, il concetto “magico” è stato sostituito dal concetto di “innaturale”, o “artificiale”[5].
Bisogna fare anche attenzione alla differenza tra i termini “comprendere” e vedere”: il caso delle operazioni di un falegname intento a costruire un tavolo è qualcosa che si comprende perché si vede, ma l’uomo ha sempre accettato come naturale anche la nascita di una pianta dalle sue sementi, cosa che comprendeva anche se non vedeva, o il risultato dell’incrocio tra due piante, che non vedeva e che, in definitiva, era il prodotto di elementi naturali (le due piante di partenza) unite tra di loro con un metodo che sicuramente non era frutto di un’azione naturale.
In definitiva, alla luce di questi esempi, possiamo dire che l’uomo ha sempre manipolato elementi presenti in natura (sia che si trattasse di sementi che di uranio radioattivo) ma ad alcune di queste operazioni ha attribuito la patente di “artificialità”, per cui, a questo punto, la domanda alla quale cercare una risposta è la seguente: quando l’operazione risultante una manipolazione può essere considerata artificiale?
Poiché non abbiamo trovato l’elemento discrimine in base alle considerazioni fatte fino a qui potremmo decidere di fissarlo “per definizione” e dire, per esempio, che tutte le volte che si ottengono prodotti che non siano presenti in natura, allora ci troviamo di fronte ad elementi artificiali; in questo caso, però, dovremmo considerare artificiali anche i cibi cotti, il tavolo ed il nido dell’uccello sarto.
Questa considerazione potrebbe anche non porci, comunque, grossi problemi: che ci importa se cuocere il cibo deve essere considerato artificiale? Dopo tutto l’importante è riuscire a nutrirci; abbiamo solamente trovato un quesito in più per i filosofi.
Ma se ci trasferiamo dal campo delle scienze naturali a quelle sociali, se sostituiamo al termine “elemento” quello di “comportamento” allora le cose cambiano, dato l’impatto del fenomeno sulla cultura; anche l’impatto di una cultura “primitiva” con gli antropologi che vanno a compiere indagini sul campo è, in base ha quanto abbiamo definito, qualcosa di naturale, ma il comportamento di quella cultura, da quel momento in poi, sarà inevitabilmente modificata, in tutti i suoi futuri comportamenti, da questo incontro.
Data l’inevitabilità di questo fatto ne consegue che il problema non è quindi distinguere tra naturale ed artificiale (il comportamento culturale dell’etnia esaminata rimarrà comunque un comportamento naturale, anche se modificato) ma tra “prima” e “dopo”, ossia riuscire a distinguere i fenomeni osservati, riuscendo ad estrapolare i risultati di una cultura “prima dell’incontro” da quelli “dopo l’incontro”.
Se i primi ci forniscono informazioni sull’evoluzione culturale nel senso classicamente inteso dall’antropologia, i secondi non saranno meno importanti.
[1] Tanto per fare un esempio di termini usati in maniera non appropriata si pensi all’utilizzo del termine “popolare” riferito ad una certa categoria musicale, senza chiarire se si tratta di popolarità solo perché è “molto diffusa” o perché, come l’etimologia farebbe supporre, viene invece da “motivi che affondano le radici nella cultura del popolo”.
[2] Lo stesso comportamento si può notare anche in diverse speci di uccelli marini, che usano la stessa tecnica per frantumare il guscio di granchi e di molluschi, facendoli cadere sulle rocce.
[3] Guglielmo di Conches, De Philosophia Mundi.
[4] L’alchimia, intesa come fenomeno culturale, è infatti patrimonio umano fin dagli albori della storia. Per presenza “socialmente influente” si intende quella che cominciò ad essere diffusa attraverso l’opera degli alchimisti, e fu contemporaneamente nota, per quanto non compresa nei suoi concetti culturali, anche al grosso pubblico.
[5] Basti pensare alle leggi della fisica quantistica, alla costanza della velocità della luce, alla teoria della relatività, o all’evoluzione della biologia conseguente la genetica ed alla scoperta del DNA, questioni quasi incomprensibili per la maggioranza delle persone.