La rappresentazione del mondo fisico trova dei limiti superabili con la potenza della matematica.

L’uomo primitivo aveva solo i propri sensi per interpretare il mondo nel quale viveva.

Molto vicino, per quanto riguarda la sua fisicità, agli animali dai quali era circondato, egli utilizzava gli stessi strumenti di questi ultimi per valutare la realtà fisica: con la vista poteva farsi un’idea della tridimensionalità del suo universo, aiutato in questo dal tatto; l’odorato ed il gusto lo aiutavano a creare le prime classificazioni delle famiglie vegetali e minerali. 

Dovranno passare molti anni prima che si rendesse conto che le stesse classificazioni potevano essere elaborate anche da schematizzazioni mentali, prima di tutto attraverso i concetti matematici.

Occorre subito chiarire che il concetto di “matematica” deve essere inteso, per i nostri antichi progenitori, non come la nostra idea attuale di “metodo di calcolo”, ma solo come un sistema di confronto visivo tra quantità di elementi fisici che apparivano tutti i giorni ai suoi occhi.

Forse fu il confronto del numero delle dita della sua mano con quelle delle zampe degli uccelli, o trovare differenza tra il numero di frutti che vedeva su due diversi rami della stessa pianta, o quella del numero difforme di pesci in due diverse pozze d’acqua.

Fatto sta che il primo concetto di matematica fu quello del senso di “quantità maggiori” e “quantità minori”, e come tale utilizzato per millenni; non esisteva ancora il concetto di una scala numerica crescente o decrescente, potevano esistere semplicemente “tante cose” o “poche cose”, e questo indirizzò per lungo tempo le sue scelte pratiche: identificate diverse piante nelle quali c’era qualcosa di commestibile, era più funzionale puntare verso quelle nelle quali crescevano “più frutti”.

Furono poi ancora una volta le proprie mani, con dieci dita, a fornirgli il primo sistema di comparazione fra quantità, per creare un più efficiente metodo di paragone; proprio le dieci dita fecero scaturire ancora più tardi e quasi universalmente, il metodo di calcolo decimale.

Non si vuole qui fare la storia della matematica, per cui saltiamo direttamente al momento successivo in cui l’uomo, abituato ormai a far di conto ed a mettere sulla carta questi concetti, comincia a rendersi conto che esistono dei numeri che sembrano avere un significato diverso dagli altri, quasi che la matematica, come rappresentazione di un mondo estraneo a quello umano, avesse anch’esso le sue divinità ed i suoi elementi comuni.

L’uomo vide la matematica come un universo parallelo, che poteva utilizzare ma sul quale non poteva intervenire, perché possedeva le sue leggi immutabili ed intoccabili: si trattava quindi di un universo superiore, che si collocava al di sopra delle sue capacità.

D’altro canto già i primi matematici, che pure intuivano meglio dell’uomo comune le leggi dei numeri, e verso i quali non avevano quindi il timore riverenziale di questi, intravedevano alcuni aspetti che sfuggivano alla loro comprensione: come spiegare, per esempio, che quel rapporto fra dimensioni che definiamo “sezione aurea”, se indagato con la sola vista, trasmetteva un’idea di eleganza che altri rapporti non possedevano? E perché altrettanto eleganti apparivano solamente quelle formazioni minerali e vegetali (le spirali del guscio di alcune chiocciole, o la formazione dendritica delle piante) che obbedivano a quella legge matematica, definita più tardi “serie di Fibonacci”?

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Il sigillo di re Salomone.

Fu quello il momento, e questi i paragoni ottici, per cui quelle “stranezze” (definiamole così, per comodità) apparvero tali da legare, con la loro presenza, la matematica alla geometria.

Tra queste “divinità” del mondo matematico vanno ricordati sicuramente i “numeri primi”.

Intuita la loro diversità dagli altri fu quasi naturale interpretarli antropologicamente come elementi singolari e rappresentativi di un’alterità che si legava simbolicamente a diversità del mondo fisico. Sappiamo infatti che questa è una tendenza naturale della mente umana: tutto ciò che è abitudinario e ripetitivo (normalità) rappresenta la costanza e l’inevitabilità del vivere di tutti i giorni, mentre l’eccezione (anormalità) è sinonimo di cambiamento, di qualcosa che può succedere una sola volta, e, spesso, ciò è un fatto negativo, perché l’uomo cerca generalmente la normalità e, con questa, la sicurezza. E’ la stessa logica che portava a vedere come annuncio di futuri disastri l’apparizione di una cometa, così anormale rispetto alla fissità delle stelle, o al normale levarsi giornaliero del sole.

Da tutto ciò che nacque l’idea di esprimere con concetti grafici il rapporto magico-mistico tra un “segno grafico” e le suggestioni che giungevano dal mondo spirituale.

Quanto fin qui espresso, e l’analisi delle immagini elaborate attraverso la storia della logica simbolica, può aiutarci a capire meglio questi concetti.

Il numero 1

Possiamo ritenere con sicurezza che questo numero sia precedente ai concetti matematici.

Infatti non è necessario possedere questi concetti per avere coscienza del senso di esistenza di noi stessi, che è, evidentemente, l’unico essere del quale si ha percezione non appena siamo in grado di avere chiaro il concetto (diremmo quasi animale) del nostro vivere sul pianeta.

“Io sono io, ed il resto non è importante” potrebbe essere la prima definizione filosofica, anziché matematica, del numero 1[1].

Quando l’uomo non aveva ancora il concetto della nascita e della morte come limiti alla sua esistenza, aveva l’impressione di essere sempre esistito e di poter vivere indefinitamente (è lo stesso concetto, ci dicono i neurobiologi, posseduto dagli animali).

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In questo modo non c’era la capacità di identificare gli altri come entità di pari valore a questo ”io” assoluto e predominante, e tutto l’universo era centrato sulla propria esistenza.

Senza limiti temporali l’esistenza veniva immaginata come continua o, tutt’al più, ritornante ciclicamente secondo l’unico limite temporale compreso dall’uomo primitivo: quello circadiano della giornata.

Abbastanza normale quindi identificare simbolicamente tutto ciò con il cerchio, o con l’immagine del serpente che si morde la coda (uroburo): l’avvenimento (la vita) non ha inizio e fine, continua a ripresentarsi indefinitamente, non c’è alcun momento in cui il cerchio può rompersi; anche quando l’uomo intuì il concetto della morte, fu portato a ritenere che con questa tutto giungeva a termine (non solo la sua vita ma, e senza con ciò poterlo accusare di egoismo, tutto l’universo).

C’era il solo presente, mancava il concetto di passato e presente.

Quindi l’uroburo “esisteva”, e non aveva senso pensare ad una sua interruzione nel tempo o comunque ad una sua sparizione. Con la morte dell’io assoluto il concetto perde di significato.

Il cristianesimo, più tardi, ritornerà a ribadire un concetto analogo a questo con l’immagine di Dio simboleggiato da un occhio.

Il numero 2

Con questo numero nasce la matematica; adesso l’uomo riconosceva l’alterità, la presenza di qualcosa di simile a lui, e, soprattutto, nasceva la percezione che potesse esistere qualcosa di fondamentalmente diverso, magari completamente opposto, alla sua esistenza; vedeva il concetto nel’alternarsi del giorno e della notte, della fame soddisfatta dal cibo, dalla paura risolta con il rifugiarsi in una caverna.

Simbolo tipico, ma non unico[2], di questo concetto è lo “yin e yang” cinese, con la sua contrapposizione sia nella geometrica che nel colore. L’importanza della luce, intesa come qualcosa di benefico in contrapposizione del buio della notte, è uno dei motivi originatori del concetto “bianco = bene; nero = male”[3], e spinge, nella grafia simbolica, ad un cromatismo orientato principalmente verso l’utilizzo di questi due colori. Sarà solo l’alchimia, più tardi, a rendere più complesse le logiche mentali, ed a far si che anche altri colori venissero utilizzati per simboleggiare la negatività.

Con il concetto del dualismo cominciò anche a farsi largo l’idea del tempo immaginato come lo scorrere di un passato che non poteva più tornare ed un futuro ancora non avverato; gli antichi italici identificarono simbolicamente questo concetto con la rappresentazione del dio Giano bifronte. Va notato che con l’idea del tempo che possiede un passato ed un presente, l’uomo non aveva ancora assimilato il concetto della bi-tridimensionalità: il tempo che scorreva era comunque sempre e solo considerato come un fenomeno monodimensionale.

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Il numero 3

Questo numero cominciò ad avere una grande importanza quando concetti politico-sociali iniziarono ad affiancarsi a quelli religiosi.

Le prime organizzazioni sociali prevedevano il potere gestito da due figure concomitanti: il capo politico e quello religioso; re e sacerdote furono i primi rappresentanti delle due classi sociali egemoni, mentre il popolo era la terza, gestita dalle prime due.

È questa organizzazione antica che si trasformerà poi nel potere delle classi militari e del clero; i sacerdoti dettavano una serie di leggi necessarie

agli uomini per convivere in gruppi con singolarità collaboranti, ed il potere politico le imponeva con la forza. L’autorità delle leggi veniva giustificata dal fatto di discendere direttamente dalle divinità.

Questo modo di intendere la società fu così universale che la simbologia del “3” si ritrova in quasi tutte le culture: dalla triforme Morrigan dei celti (il “trischele”) alle tre divinità della religione preislamica (Al-Uzza, Al-Lat e Manat).

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Nella simbologia della greca Ecate si somma a questo significato anche quello della triplice età degli uomini (giovinezza, maturità, vecchiaia); nella teologia cristiana, a seguito di una più approfondita rappresentazione dei concetti religiosi, si identificò con questo simbolo l’intimo rapporto (Spirito Santo) che esisteva tra Dio e suo figlio Cristo; San Patrizio usò la figura del trifoglio proprio per spiegare alla gente comune dell’Irlanda il concetto “uno-trino”[4]; in altre culture, dove non esiste invece la figura del sacerdote, e non ci sono quindi intermediari tra dio e l’uomo, il simbolo del 3 indica semplicemente questo ponte tra umano e divino.

Come avremo modo di vedere, il numero 3 lascerà un segno anche nella tradizione letteraria, soprattutto in quella popolare.

Il numero 5

Utilizzato in antichità come simbolo per rappresentare una stella, e quindi qualcosa che aveva a che fare con il divino (il cielo irraggiungibile), come tale venne utilizzato per molto tempo. La più antica simbologia religiosa identificava nella stella a cinque punte (pentagramma) la rappresentazione della sede degli dei.

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Nel tentativo di trovare un legame tra cielo e terra, il simbolo si prestò bene a rappresentare, con le sue punte, le qualità umane assieme a quelle più nobili (i piedi che stavano sulla terra, le braccia, simbolo di laboriosità che eleva l’essere umano a metà strada, e l’intelletto identificato dalla punta più alta).

Questo tipo di simbologia fu così popolare da generale infinite variazioni, dall’uomo di Vitruvio al “pentacolo”, ottenuto dal pentagramma iscritto nella figura geometrica del cerchio. Il pentacolo, dalla cultura popolare identificato erroneamente con la stregoneria, fu in realtà un simbolo utilizzato da diverse correnti mistiche e filosofiche degli anni che andavano dal VII al XII sec. Esprimeva il concetto che le capacità dell’uomo, simboleggiate dalle punte della stella, dovevano essere utilizzate contemporaneamente (il cerchio che le univa) in equilibrio tra loro, per permettere una visione globale dell’universo.

L’idea che il simbolo fosse usato dalla stregoneria ebbe una certa fortuna anche perché si prestava ad un’interpretazione degli inquisitori, che vedevano, nel pentacolo capovolto, la perfetta schematizzazione dell’immagine del caprone, animale associato alle streghe[5].

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Il pentacolo e le sue trasformazioni in simbolo diabolico.

Il numero 7

Al crescere dei numeri fu la stessa matematica che contribuì al moltiplicarsi dei significati simbolici. Ogni numero poteva essere visto come somma o composizione di altri.

Il 7, ad esempio, fu visto come 3 + 1 +3, quindi con una triplice stranezza; con ciò iniziò quella particolare interpretazione mistica dei numeri (la “numerologia”) che finirà per diventare una vera e propria (sedicente) scienza, ottenendo risultati che, visti con gli occhi di chi non conosceva la matematica, erano una vera e propria fonte di infinite rivelazioni che perverrebbero dal mondo ultraterreno.

Soprattutto nella cultura ebraica ebbe particolare fortuna la “cabala”, ma non mancano casi anche nella cultura cristiana, ad esempio nella numerologia utilizzata da Nostradamus.

È sufficiente realizzare una breve ricerca bibliografica per trovare simbologie legate ai numeri 11 e 13. Le interpretazioni legate ai numeri si sovrapposero poi a quella che avevano altre origini (mistiche, oniriche, lessicali o semplicemente basate sulle similitudini cromatiche e geometriche), tali da rendere fruibili di queste suggestioni anche i numeri diversi da quelli primi; un esempio è quello del numero 666 considerato come simbolo del demonio.

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Il risultato fu un intero universo simbolico, che trovò nel medioevo il suo punto più alto.

La pittura è il campo dove questo fenomeno si osserva maggiormente (basti pensare all’universo rappresentato da Jeronimus Bosch) ma, come avevamo anticipato, anche la letteratura non ne fu immune, soprattutto quella delle tradizioni popolari; le fiabe romagnole, come quelle di tanti altri paesi, ci presentano continuamente protagonisti che sono sottoposti a “tre” prove iniziatiche, oppure ultimi di “sette” fratelli, o che ricevono “tre” doni da una fata.

Non dobbiamo ritenere il fenomeno come esclusivo dei tempi antichi; anche oggi proverbi, modi di dire, definizioni popolari, trovano nella simbologia dei numeri primi un’origine che si è mantenuta inalterata, nonostante le nostre conoscenze matematiche ci abbiano permesso di capire.

Nonostante i progressi della matematica ancora oggi esistono diversi fenomeni che le nostre capacità sensoriali non riescono a percepire né tantomeno a spiegare (la teoria matematica del caos, i frattali, il concetto di infinito, la fisica delle particelle estreme, le teorie astrofisiche), così che la nostra insopprimibile voglia di percepire concretamente il mondo ha spostato su questi la metodica simbolica.

Nonostante la matematica ci assicuri che il mondo è più vasto di quello che riusciamo a cogliere con i sensi, ciò che va al di là di questi è sentito come qualcosa di soprannaturale.

La logica intravede la sua limitatezza, che la matematica fatica a spiegare; il che apre le porte alla gnosi, al misticismo o alla fede.

[1] Questo concetto, a causa della sua vetustà, è ancora presente, in realtà, nella memoria antica (limbica) della specie umana.

[2] Tutti i simboli analizzati non sono, evidentemente, gli unici che l’uomo ha utilizzato per esprimere in maniera grafica questi concetti.

[3] Non va però dimenticata anche la teoria che vede i colori bianco e nero considerati in maniera opposta a quanto qui espresso, derivazione della logica che associava il bianco alle ossa dei cadaveri ed il nero alla fertilità della terra. Si tratta di una teoria tipica dagli antropologi che sostengono un’iniziale preminenza del matriarcato sul patriarcato.

[4] Fu per questo motivo che il trifoglio finì per diventare il simbolo dell’Irlanda, e come tale lo ritroviamo oggi raffigurato in buona parte dell’oggettistica che riguarda questo paese.

[5] Come in molti altri simboli, il ricordo dell’interpretazione scorretta si è mantenuto nel tempo, realizzando così un nuovo simbolo che oggi possiamo considerare corretto. E’ uno di quei casi in cui, per accettazione universale di un’idea sbagliata, si è creata una figura “corretta psicologicamente”, anche se non storicamente.