Tatuaggi e pratiche simili nella cultura odierna: un desiderio ambivalente di associazione e contemporaneamente di identificazione personale.

Nonostante siano sempre più diffusi e portati ormai da individui compresi in un amplissimo arco di età, i tatuaggi vengono ancora considerati, dalla maggioranza delle persone, come il segno di un’anomalia; anomalia che può andare dal semplice ed innocuo esibizionismo (quello comunemente detto del “voler essere alla moda”) a gravi mancanze identitarie psico-sociali (i tatuati pressoché totali) fino all’espressione di una cultura delinquenziale (i tatuaggi delle gang criminali e delle bande giovanili). 

Queste convinzioni sono dovute principalmente a ragioni storiche.

Nel passato venivano tatuati i criminali prima di essere avviati alle colonie penali (una sorta di economico tipo di anagrafe e di facile identificazione sociale) o chi si macchiava di particolari delitti[1], ma anche chi voleva essere sicuro di essere riconosciuto come appartenente al consesso civile in caso di morte violenta: quest’ultimo è il caso dei marinai che combattevano i saraceni: in caso di morte era facile riconoscere un cristiano dai simboli di questa religione tatuati sul proprio corpo. Non per niente sarà proprio la gente di mare ad essere uno dei gruppi sociali nei quali questa pratica era più diffusa.

In Italia il legame ideale tra tatuaggio ed anormalità è ancora più forte che non in altri paesi a causa di un non dimenticato retaggio lombrosiano.

Fu proprio Cesare Lombroso, nel suo saggio L'uomo delinquente del 1878, a mettere in relazione il tatuaggio e la degenerazione morale, in questo caso innata, del delinquente (che egli chiama, appunto, “delinquente nato”); il criminologo veronese fece del tatuaggio un segno antropologico naturale, che il delinquente sentiva suo come ogni altra parte del corpo, e sintomo indubitabile di una regressione del soggetto tatuato allo stadio violento e primitivo. Data l’enorme casistica di tatuaggi studiati, è un peccato che Lombroso non sia stato in grado di cogliere la relazione tra la posizione sociale dei soggetti indagati con i relativi ricorrenti simboli tatuati, e perciò non ne abbia capito l’aspetto antropologico.

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Fig. 1 - Un tatuaggio facciale delle popolazioni Maori.


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Fig. 2 - Un odierno tatuaggio “globale”.

Per quanto riguarda l’accusa del tatuaggio come banale simbolo di appartenenza al gruppo che segue una “moda giovanilista” occorrerebbe, come sempre si dovrebbe fare nella valutazione di fenomeni sociali, rifarsi a quelle certezze storiche che ci permettono di sgombrare il campo dai preconcetti; possiamo farci aiutare da quanto è già successo in passato, anche perché (ci permettiamo una citazione colta) “negli attuali comportamenti umani non c’è nessun fenomeno che non si sia già presentato in migliaia di anni di evoluzione”[2].

Il tatuaggio, che è una sola di quelle che passano sotto il nome di “pratiche di modificazione corporea”, è stato estremamente diffuso nel passato, soprattutto in quello preistorico, ma anche oggi in certe parti del mondo: oltre al tatuaggio si usava la pittura non permanente[3], la scarificazione[4], l’inserimento di corpi estranei (bastoncini, ossa, ecc….) nella pelle[5], le modificazioni di parti del corpo mediante attrezzature in legno, metalliche o fasciature [6].

La storia ci ricorda i tatuaggi eseguiti dagli Egizi, dai Romani ed anche dai primi cristiani, prima che la Chiesa ne vietasse definitivamente la pratica, probabilmente perché ritenuta un’usanza pagana[7].

Praticamente scomparso nel vecchio continente, il tatuaggio ricominciò ad essere nuovamente conosciuto quando le navigazioni commerciali portarono a conoscenza degli europei gli usi degli abitanti delle isole del Pacifico. Uno dei popoli che usava questo metodo era quelli dei Maori, e fu proprio lo studio antropologico di questa popolazione che portò a riconsiderare il significato sociale del tatuaggio[8].

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Fig. 3 – un esempio di modifica corporea.

Tipico dei Maori è infatti il tatuaggio facciale (moko) che si scoprì essere sia identificativo della classe sociale dell’uomo (lo potevano portare solo i guerrieri e gli uomini liberi) sia come elemento personale (ogni uomo aveva un proprio moko) sia il legame con i riti di passaggio che portano i giovani fino all’età adulta.

Ciò condusse pertanto a rivalutarne il significato del tatuaggio presso le antiche popolazioni, comprese quelle dell’area mediterranea.

Oggi sappiamo che anticamente il tatuaggio assumeva diverse valenze: era usato come simbolo totemico (e quindi identificativo di un gruppo sociale); come metodo di comunicazione visiva immediata con le divinità (analogamente a quanto abbiamo visto per i marinai che combattevano i saraceni) e apotropaico (soprattutto nel caso di bambini, per scongiurare i pericoli rappresentati dalle influenze negative sia delle divinità che di nemici tribali); aveva uno scopo terapeutico (per associazione dei segni grafici con le particolari “forze magiche” corrispondenti); era identificativo dei riti di passaggio; ed infine, da non sottovalutare, semplicemente come fatto estetico[9] (e quindi, in questo caso, espressione di un desiderio di personalizzazione).

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Fig. 4 - Il tatuaggio di una gang messicana.

Cercando queste stesse motivazioni in questo fenomeno riportato ai nostri tempi siamo in grado di identificarne almeno qualcuna.

Sicuramente il tatuaggio è la ricerca di un’identificazione con un gruppo sociale, sia che come “gruppo sociale” si consideri semplicemente il fatto di essere giovani, o di essere tifosi di una squadra di calcio, oppure di aderire ad un’ideologia religiosa, o solamente di voler mostrare un lato romantico del proprio essere[10]. In tutti questi casi c’è il desiderio di mostrare l’appartenenza al gruppo, che è esplicita nei primi degli esempi citati, mentre probabilmente è un inconscio invito, rivolto a persone simili, a tentare un approccio nell’ultimo esempio, sintomo di una sempre più difficile capacità di comunicazione diretta delle giovani generazioni.

Ciò che differenzia il fenomeno odierno da quello del passato è il fatto che non sempre il desiderio di appartenenza si mostra attraverso un simbolo totemico, se con questo termine indichiamo un segno grafico ben preciso: se ciò è vero per i tifosi di una squadra di calcio, dove magari i segni possono essere più di uno (lo scudetto della squadra, il suo nome, i colori, ecc..) ed ancora di più per le gang che possiamo definire criminali a tutti gli effetti (le mafie cinese e portoricana, i gruppi delinquenziali dei barrios messicani, dove il simbolo è – e non può essere diversamente – quello tipico dell’organizzazione criminale stessa) negli altri casi si esprime con infiniti segni grafici.

Ma questo non toglie nulla al fenomeno totemico. È scontato che in una società più acculturata, come è l’odierna rispetto a quella del passato, la maggiore scolarità permetta la lettura simbolica anche con segni diversi.

E questo non vale solo per i giovani. Per i meno giovani diventa il desiderio di comunicare che anch’essi non sono così lontani dai loro figli, almeno nelle intenzioni (altro sintomo di quel desiderio di demonizzare la vecchiaia che sembra una delle dannazioni della nostra era).

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Fig. 5 – Il segno grafico del tatuaggio cambia con l’evoluzione dei tempi. In alto sono riportati alcuni dei tatuaggi utilizzati dai militari americani durante la II guerra mondiale; in basso un tipico tatuaggio odierno, definito generalmente “tribale”.

Possiamo identificare anche un altro parallelo con l’antico fenomeno totemico: così come il totem si è modificato nel corso del tempo (dai disegni sul corpo si è passati ai simboli identificativi della tribù, poi alle bandiere, alle uniformi militari e così via) anche i tatuaggi si sono modificati nel tempo (leggere la didascalia riportata a fianco della Fig. 5).

Abbiamo scritto, nel sottotitolo di questo lavoro, che il tatuaggio rappresenta un “desiderio ambivalente di associazione e contemporaneamente di identificazione personale”; se entrambi questi due desideri possono sembrare positivi ad una prima analisi, non possiamo dimenticare che la “identificazione personale” può degenerare anche in aspetti razzisti (leggere la didascalia riportata a fianco della Fig. 6).

Anche nel caso del fenomeno dei riti di passaggio la similitudine tra i due fenomeni risulta evidente.

Nell’antichità il rito di passaggio, anche se approvato dall’intera comunità in quanto cerimonia che faceva accettare i giovani tra le persone importanti del gruppo, e quindi li responsabilizzava a contribuire alla sua sussistenza, creava un circolo di elementi giovani che sentivano il desiderio di modificare, secondo i propri desideri, le regole sociali del gruppo stesso.

Difficile non vedere lo stesso desiderio in quello che, attraverso un diverso modo di mostrare il proprio corpo, sembra un deliberato intento di derisione delle convenzioni sociali.

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Fig. 6 – L’identificazione con il proprio gruppo può anche possedere contenuti razzisti. La foto riporta le immagini degli addetti alle macchine di una nave da guerra statunitense, fieri dei loro tatuaggi. È interessante notare che l’ultimo militare a destra (che mostra chiare caratteristiche fisiognomiche non anglosassoni) è l’unico a non avere un’aquila tatuata sul petto. Forse non gli fu permesso, nella convinzione razzista che l’aquila fosse il simbolo dei soli “veri americani”.

Impossibile anche liquidare il tatuaggio come un elemento “non rappresentativo” della nostra cultura. Se un tahitiano con un tatuaggio rappresentativo della sua cultura, a Tahiti, è figlio di una cultura autentica, il figlio di quell’uomo, nato magari a Roma, e che porta gli stessi tatuaggi, è figlio di una cultura diversa. Un ragazzo italiano, che copia gli stessi tatuaggi del coetaneo tahitiano nato a Roma, rappresenta una terza cultura.

Ognuno di loro inserisce inconsciamente nel tatuaggio un messaggio diverso, ma non per questo meno autentico.

[1] Il tatuaggio era l’estremizzazione dei segni portati, in casi meno gravi, sulle vesti, come la stella di David per gli ebrei. Ma a collegare questi segni esterni con quelli portati sul corpo non possiamo dimenticare che il reverendo Dimmesdale, uno dei protagonisti de La lettera scarlatta, di Nathaniel Hawthorne, in un vano tentativo di espiazione, si incise sulla propria pelle quella stessa lettera che Esther, la sua amante, era stata condannata a portare cucita sugli abiti.

[2] Mircea Eliade.

[3] In alcune culture (soprattutto nell’induismo) è ancora molto diffusa la pittura a base di henné, un colorante vegetale non permanente.

[4] La scarificazione consiste nell'incidere la pelle introducendo sostanze colorate nelle ferite e ritardandone artificialmente la guarigione così da rendere più vistosa la cicatrice. Il ritardo della guarigione la rende infatti più spessa, ed il colorante la fa risaltare maggiormente.

[5] Di questa pratica rimane la sopravivenza nel nostro tempo, e nei paesi cosiddetti civili, degli orecchini portati per motivi estetici ai lobi delle orecchie; il che è, in definitiva, una forma di piercing accettato da tutti.

[6] Si ricordano i piedi fasciati delle donne cinesi al fine di ridurne la dimensione, o le “donne giraffa” della cultura birmana Kayan (in quello che è l’odierno Myanmar), che si fanno allungare il collo con il graduale inserimento di collari metallici.

[7] Nel Concilio di Nicea, sotto papa Adriano I, nel 787. È questo l’anno del divieto definitivo da parte della Chiesa, anche se altri tentativi di abolirne l’uso erano stati tentati, senza grandi risultati, fin dai tempi di Costantino.

[8] W. P. KÄCHELEN: Tatau und Tattoo. Eine Epigraphik der Identitätskonstruktion, Aquisgrana, Shaker Verlag, 2004.

[9] Si veda, a riguardo del tatuaggio usato come abbellimento corporeo, quanto scrive Levi Strauss in: Antropologia Strutturale, Il Saggiatore, 1966.

[10] È questo il caso dei tanti tatuaggi di fatine, gattini, cuori, fiori, uccelli, ecc… che ritroviamo generalmente (ma non esclusivamente) portati dalle ragazze.