Questo importantissimo fenomeno sociale ha subito nel tempo diverse variazioni, sia nella ritualtà che nel significato. Il sacrificio “verticale” ed il sacrificio “paritario”.

Si è già discusso delle tante interpretazioni che ancor oggi si assegnano al concetto del sacrificio rituale, e come tali interpretazioni possano, a volte, trovare degli elementi comuni[1]; in quella occasione si è dato per scontato che tra i tre attori del rito (sacrificante, sacrificato, divinità) i rapporti di ruolo siano ben definiti: il sacrificato ha un ruolo passivo, il sacrificante attivo, la divinità li possiede entrambi, perché nel momento del sacrificio ha un ruolo passivo (soprattutto se a questo attribuiamo il concetto di “richiesta” al numinoso per avere una contropartita favorevole), poi però deve esaudire la richiesta stessa, ed in questo caso deve avere un ruolo attivo. 

C’è però da chiedersi se le cose siano sempre state così, o se non vi fossero state, precedentemente a questa - che potremmo definire “ritualità classica” del sacrificio - altre forme in cui i rapporti di ruolo fossero diversi e, in particolare, sacrifici in cui anche il sacrificato abbia avuto un ruolo attivo.

Questa domanda ci sorge spontanea esaminando certi fenomeni (alcuni dei quali perfino attuali) in cui si nota l’esistenza di riti che possono comportare anche il rischio della vita per il sacrificante. Ricordiamo, ad esempio, quel fenomeno odierno che è la corrida spagnola. E’ abitudine comune ritenere che questa sedicente pratica sportiva sia l’ultimo retaggio di antichi sacrifici animali dove il toro è, ovviamente, la vittima, ed il matador il carnefice; ma se così fosse, perché l’uomo metterebbe a repentaglio la propria vita nell’esecuzione del rito, perché non si limita semplicemente ad uccidere la vittima?

Sappiamo, proprio dalle analisi su questi fenomeni, che il sacrificante non viene mai colpevolizzato per il suo ruolo di carnefice, ma anzi, se esiste una colpevolizzazione, ad assumersi questa responsabilità è semmai l’intera comunità, sebbene nel sacrificio svolga il ruolo di semplice spettatore per quanto spiritualmente partecipante; possiamo quindi escludere che, mettendo a rischio la propria vita, il sacrificante intenda cercare in qualche modo una autoassoluzione del suo comportamento.

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Come ci sembra limitativo ritenere anche che questo aspetto si debba semplicemente al fatto che al rito sacrificale iniziale si siano sovrapposti, nel tempo, altri fenomeni sociali, come il desiderio di fornire una prova di coraggio (fenomeno di iniziazione), o quello di dimostrare la propria superiorità all’interno del gruppo (fenonemo di sanzionamento gerarchico) o, ancora, la dimostrazione della superiorità umana nei confronti degli altri esseri viventi (fenomeno di verticalizzazione etica).

L’identificazione di questa possibilità di morte per il sacrificante (che ha come inevitabile controparte il ruolo attivito del sacrificato) sono elementi estranei a quel fenomeno che abbiamo poco fa definito come “rito sacrificale classico”, così che viene da chiederci se si stia esaminando lo stesso fenomeno e non, magari, uno completamente diverso.

A maggior ragione quando ci si rende conto che riti che prevedevano una forma di rischio per il carnefice ve ne sono stati altri nel corso dell’evoluzione umana: il giudizio di Dio ed il torneo medioevale, oppure quello che si svolgeva nell’Isola di Pasqua, chiamato tangata manu, in cui la divinità Makemake definiva vincitore colui che riusciva a trovare per primo un uovo deposto dalle sterne (ed i perdenti erano alla mercè del vincitore) e per certi aspetti anche i giochi olimpici più antichi, o i giochi gladiatori.

Erano tutte attività sociali in cui il sacrificato ed il sacrificante possedevano contemporaneamente un rito attivo ed uno passivo. Particolarmente in uno di questi (nel torneo medioevale tra quelli ricordati, ma riteniamo che uno studio approfondito possa mettere alla luce anche altri casi) i due ruoli non sono immediatamente attribuibili all’atto del sacrificio, ma solamente alla sua conclusione (ecco perché si è ricordato, nel sottotitolo di questo lavoro, anche una “variazione del rito” oltre a quello del suo significato del sacrificio, aspetto che approfondiremo più avanti).

Poiché l’antropologia ci ha ormai fatto capire che ogni ritualità umana ha sempre avuto una “azione primitiva scatenante”[2], dobbiamo cercare di capire se questa azione è stata la stessa o meno nei due casi.

Sappiamo che i sacrifici più antichi erano quelli che prevedevano la morte di un uomo; solo posteriormente si passò al sacrificio di animali, poi di elementi vegetali, fino ad arrivare a quei riti che sacrificavano elementi simbolici (un fantoccio, un’immagine ecc…). Nei periodi più antichi, quando la vittima era un uomo, non deve essere stato facile per il sacrificante uccidere un suo simile durante un rito sacrificale, nonostante la cultura del periodo imponesse il fenomeno come atto sociale necessario; l’empatia verso i propri simili e la consapevolezza che la forza del gruppo sociale stava nel numero, rendevano la prima immorale il sacrificio, la seconda un atto funzionalmente improduttivo. L’idea che la vita degli uomini avesse per tutti un identico valore faceva dubitare che colui che era stato destinato al ruolo di vittima fosse stato scelto “giustamente”, e quindi poiché la scelta andava al di là delle possibilità umane si pensò che forse l’unica entità in diritto di operarla non potesse essere che la stessa divinità; il caso del mancato sacrificio di Isacco è emblematico di come questo dubbio sia rimasto a lungo nella mente degli uomini.

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Quanto ci viene tramandato dal racconto del sacrificio di Isacco è l’eterno dubbio dell’uomo sulla possibilità di ergersi a giudice dei comportamenti sociali di un proprio simile.

Allora quale soluzione a questo dilemma se non attraverso una “prova” che desse alla divinità la possibilità di intervenire per far sentire la propria voce?

Quando la divinità si fosse espressa non c’era nessun problema ad accettare questo suo giudizio di valore. E’ pensabile allora che le prime forme di sacrificio avvenisse solo quando la vittima veniva identificata con una prova (la prima che viene alla mente è un combattimento); potremmo definire questo sacrificio come “paritario”, in quanto i due attori non divini combattevano per definire chi di loro doveva essere la vittima e chi il carnefice, ognuno sperando che la divinità fosse dalla sua parte.

Traccie di questo comportamento si possono rilevare nella mitologia e nelle fiabe; pensiamo ai tanti “cattivi” che muoiono dopo aver vessato l’eroe, in particolare alla matrigna che viene fatta decapitare da Biancaneve[3]; la divinità (in questo caso il giudizio della collettività) aveva invertito i ruoli iniziali.

Da questo rito nacque quel fenomeno che più tardi si chiamò “giudizio di Dio”, o “ordalia”: vittima e carnefice si confrontavano in quello che poteva essere un duello, o una prova variamente congeniata, che potesse definire da quale parte stesse la ragione e da quale il torto. C’è da dire che nel giudizio di Dio, in realtà, le cose si erano già modificate rispetto a quello che doveva essere un sacrificio paritario molto più antico, in quanto il ruolo era già definito all’inizio della prova, nella quale, eventualmente, la vittoria della vittima avrebbe potuto significare solo la sua dichiarazione di innocenza e quindi la sua libertà, ma non la possibilità di diventare, a sua volta, carnefice; ma questo fatto attesta semplicemente come il rito sia stato sempre molto complesso e quante variazioni abbia avuto.

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Il torneo cavalleresco si può considerare una forma di lotta per decidere il “torto” del perdente, anche se in questo caso sull’antico rito iniziale si era innestato la decisione di affidare ad un singolo la risoluzione di un conflitto militare, più che di uno di carattere sociale.


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La forma rituale del giudizio di Dio venne utlizzata fino al XVI secolo, per esempio nei processi contro le streghe. In questi casi il sacrificio assume amcora altre connotazioni, in quanto si inserì un ulteriore concetto: il pregiudizio. Molto spesso, infatti, la prova era studiata perché l’imputata finisse per perdere la vita. Nel caso illustrato, per esempio, una donna accusata di stregoneria viene sottoposta alla prova dell’acqua: se colpevole doveva sopravvivere, mentre era considerata innocente se moriva per annegamento.

Quando il concetto dello “stesso valore della vita” cominciò a modificarsi parve normale sacrificare chi valeva di meno, ed allora, nel caso dei sacrifici umani, la vittima prescelta fu un nemico, un prigioniero, oppure, in mancanza di questi e dovendolo trovare all’interno del proprio gruppo, la scelta cadde su un malato, o su una persona che si era macchiata di gravi delitti. Il problema non si presentò più quando si decise di sacrificare animali, vegetali o simulacri.

Questo tipo di sacrificio, quello che ci è più noto, potremmo definirlo sacrificio “verticale”, in quanto la decisione rimane quella iniziale, come se cadesse dall’alto di un concetto ormai dichiaratamente accettato.

I fenomeni prima ricordati, come la corrida ecc…, potrebbero essere allora solo un ricordo degli antichi sacrifici paritari, evolutisi dall’azione primitiva scatenante, secondo la logica mostrata nello Schema 1.

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Schema 1
Schema dell’evoluzione del concetto di sacrificio a partire da una identica azione scatenante. Il concetto più antico (paritario) si modifica trasformando il sacrificio da “paritario” a “verticale”. Una permanenza del concetto stesso può essere rimasto dando luogo a “sacrifici paritari odierni”, per quanto edulcorati dalle forme culturali del mondo contemporaneo.

Vista la complessità del fenomeno non è neppure da escludere che siano esistiti anche altri tipi di sacrificio (dei quali, comunque, oggi non abbiamo informazione) in cui i ruoli si siano ulteriormente complicati, come nello schema riportato:

 

 Sacrificante 

 Sacrificato 

 Divinità 

Sacr. verticale

attivo

passivo

attivo

Sacr. paritario*

attivo

attivo

attivo

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* In questo caso i ruoli di “sacrificato” e “sacrificante” non sono stabiliti all’inizio del rito, ma dipendono dall’esito del sacrificio (per intervento attivo della divinità).

Oppure ancora riti in cui, ad esempio, non esistesse il ruolo del sacrificante, dove la vittima si immolava da sola mediante una pratica suicida.

Sono tutti casi che sarebbe interessante analizzare, e dei quali non esistono, a tutt’oggi, studi particolari se non in qualche caso moderno studiato nel campo della sociologia.

In chiusura è d’obbligo una precisazione.

In questo lavoro è stato analizzato il fenomeno cercando elementi a sostegno di una stessa azione primitiva scatenante e dei fattori che, partendo da questa, hanno originato due riti diversi.

Si potrebbe anche ragionare in modo diverso, e cercare direttamente, se esistono, due diverse azioni scatenanti. Chiunque è invitato a farlo; chi scrive non è riuscito ad identificarne nessuna.

[1] Vedere il lavoro: LA MALEDIZIONE DEGLI ANIMALI CON LE CORNA. Dalla “festa dei becchi” romagnola al rito indiano dello “jallikattu” gli animali più utilizzati nell’antico rito del sacrificio sono quelli cornuti, alla pagina TESTI di questo stesso sito.

[2] Con questo termine si intende quell’azione prettamente fisica “casuale”, avvenuta in tempi remoti, che ha inciso così profondamente sulla mentalità umana da essersi ritualizzata in un rito considerato necessario allo sviluppo del gruppo.

[3] Si ricorda che il finale “felice” di certe fiabe è una invenzione relativamente moderna. Nella fiaba originale di Biancaneve trasmessaci dai fratelli Grimm, proprio la morte è la fine della regina cattiva.