Le analisi antropologiche possono essere condotte anche attraverso metodiche che vengono da altre discipline. Il caso della modificazione dei concetti base della ritualità.

Uno dei concetti più difficili dell’antropologia culturale è indubbiamente quello di indagare le modifiche che un concetto base dell’attività umana subisce al modificarsi di variabili comuni; tra queste variabili ne prenderemo in considerazione solo due che, per quanto fondamentali, non sono comunque le sole che intervengono nel fenomeno: il tempo e la struttura sociale. 

È evidente che il tempo modifica i concetti che sono alla base, ad esempio, di un rito funerario, o di comportamenti inerenti ad una festa popolare: il concetto viene modificato perché si perde memoria della gestualità legata al rito, o per la dimenticanza delle necessità sociali che, all’origine, hanno contribuito a creare il rito stesso.

Per esempio ricorderemo che pochi, tra quelli che partecipano ad una cerimonia religiosa cristiana, sono al corrente che l’atto di bruciare incenso durante tale cerimonia trae le sue origini dall’utilizzo di fumi di sostanze stupefattive (e l’incenso era proprio una di queste) nelle cerimonie magico-religiose dell’antichità, ritualità che serviva a coinvolgere i partecipanti in uno stato mistico necessario a “raggiungere” con maggiore facilità il contatto con le divinità; la modificazione dello stato psicologico dovuta all’assunzione per via respiratoria di tali sostanze, modificazione essenzialmente di natura biochimica, favoriva uno stato di trance che veniva interpretato dai partecipanti come un vero e proprio “trasporto” del proprio corpo in un mondo diverso da quello reale[1].

Più semplice capire le modificazioni dei concetti dovuti alla struttura sociale, che interviene aggiungendo idee nuove, o diverse, ad un concetto arcaico (a volte addirittura sostituendole a quelle più antiche); tipico di questo caso è il fenomeno del cosiddetto “sincretismo religioso” ossia quel particolare fenomeno culturale per cui una cultura predominante (soprattutto nei casi di invasioni politico-militari o di particolari sconvolgimenti sociali) mantiene un rito sostituendone però le figure numinose.

È il caso tipico delle figure dei santi cristiani che hanno sostituito le divinità pagane pur mantenendone inalterate le caratteristiche o le potenzialità: san Giovanni Battista viene legato a riti battesimali (ossia legati all’acqua) mentre nel paganesimo acque e fonti erano luoghi tipici di divinità femminili; san’Antonio Abate ha sostituito, con la sua opera di protezione degli animali, le antiche divinità agricole e pastorali.

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Il fenomeno del sincretismo religioso non ha solo sostituito le divinità pagane con santi cristiani, ma a volte, come nel caso del dio Pan, ne ha fatto il prototipo della malvagità e del demonio. I satiri e le figure analoghe, vista anche la loro fisicità, si prestavano perfettamente a rappresentare il demonio, contribuendo con ciò a combattere il paganesimo.

Il caso del sincretismo del dio Pan illustra perfettamente il tipo di lavoro di analisi che compiono gli antropologi quando analizzano la trasformazione di un rito e dei suoi significati: partendo da alcuni dati oggettivi si cerca di intuirne il percorso di modifica ipotizzandone le logiche e sottoponendo poi pubblicamente il risultato ad una valutazione critica che, se accettata dai più, viene considerata accettabile “con buone probabilità”.

Purtroppo la cosa non è sempre così facile. Ricorderemo a tal proposito, come è già stato fatto in uno dei lavori pubblicati in questo stesso sito, un caso che per lungo tempo tenne impegnati antropologi americani nell’intento di trovarne una spiegazione.

Si trattava di un rito dei pellerossa del Nevada che prevedeva di bruciare un sacchetto di pelle contenente peli di bisonte, chicchi di mais e petali di un particolare fiore; ogni proposta di interpretazione del rito non convinceva, fino a quando, per puro caso, un antropologo in vacanza con la famiglia in un villaggio di quello stato ebbe l’occasione di discutere di questo argomento con un nativo, e la soluzione fu immediata: il nativo raccontò che la sua gente, quando vedeva spuntare proprio quel fiore particolare, sapeva che era giunto il momento di abbandonare la caccia al bisonte per dedicarsi alla coltivazione del mais; da ciò si poté interpretare il rito come un coinvolgimento, in un unico atto propiziatorio, gli spiriti dell’uomo, degli animali e dei vegetali.

Tra i due estremi dell’analisi sufficientemente semplice e di quella impossibile ci sono infinite variazioni nella scala delle difficoltà entro le quali l’antropologo si dibatte, combattuto tra l’uso razionale ed il più possibilmente spersonalizzato delle sue conoscenze e la voglia repressa di utilizzare l’immaginazione; si è aiutati certamente dalla disciplina intellettuale, ma sicuramente è di ausilio anche l’utilizzo di protocolli di indagine, soprattutto se tali protocolli, o procedure operative, sono stati predisposti mediante metodiche logico-matematiche[2].

Un metodo di indagine molto interessante che si potrebbe applicare all’antropologia culturale[3] è quello noto come “logica della catena operativa”, metodo inventato da André Leroi-Gourhan, e da lui utilizzato nello studio delle immagini parietali del paleolitico.

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Secondo questo studioso francese, per quanto sia indispensabile utilizzare tutti gli strumenti attualmente noti nella ricerca e nello studio di manufatti antichi (fotografie, schizzi, rilevamento stratigrafico, ecc…) questi non sono sufficienti, perché danno una testimonianza esclusivamente “statica” degli oggetti ritrovati: in parole povere creano, nella mente del ricercatore, l’immagine dell’oggetto come lo si vede nella vetrina di un muso, mentre lo stesso oggetto è stato trovato, lavorato, usato e gettato. Cioè ha avuto una sua “vita”, un tragitto spaziale e temporale, incidendo con ciò nelle abitudini stesse di chi lo ha utilizzato.

Se non si prende in considerazione questa vita dell’oggetto si rischia di perdere informazioni sul comportamento dell’utilizzatore.

Un esempio di ciò è lo schema riportato in Fig. A, dove la catena operativa è uno schema logico funzionale riscritto (ogni analisi prevede di creare uno schema specifico) nel caso di un raschiatoio utilizzato per scuoiare pelli.

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Fig. A
Lo schema della “catena operativa” riscritto per l’esempio dell’indagine sul raschiatoio riportato nel testo.

Si potrebbe pensare che un uomo primitivo crei questo utensile, lo usi e poi lo getti quando è inservibile, secondo lo schema 2 (“affila”) 4 (“usa”) e 5 (“scarta”); in realtà la cosa può essere stata più complessa, ad esempio dal più semplice: 1 (“trova” il pezzo di minerale che gli serve a creare l’affilatoio); 2 (“affila”, ossia lo modifica fino a farlo diventare utile all’operazione di scuoiamento); 4 (“usa”); 5 (“scarta”); fino al caso più complesso: 1 (“trova”); 2 (“affila”); 4 (“usa”); 3 (“riaffila”, cioè procede ad una nuova affilatura quando l’utensile non taglia più); 4 (“usa”, torna da usarlo nuovamente); 5 (“scarta”); 6 (“ritrova”, ossia l’utensile abbandonato da qualcuno può essere ritrovato da qualcuno che, più abile dell’utilizzatore precedente, pensa che sia ancora utilizzabile) per cui segue nuovamente 3 (“riaffila); 4 (“usa”); 5 (“scarta”) e così via, secondo una logica che può prevedere diversi passaggi; naturalmente sono possibili anche serie intermedie, e più semplificate, di questi scenari.

Le informazioni suppletive che si acquisiscono con questo modo di pensare sono evidenti; provando ad esaminare, ad esempio, la possibilità dell’esistenza della sola funzione 6 (“ritrova”) si possono prendere in considerazione alcune ipotesi possibili:

  • il secondo utilizzatore potrebbe essere semplicemente un individuo più abile del primo, ma potrebbe anche essersi verificata una sostituzione di una certa cultura da parte di un’altra più avanzata ed abile nell’uso degli utensili.
  • potrebbe essersi verificata una scarsità di materiali adatti alla costruzione di raschiatoi.
  • il raschiatoio potrebbe essere stato trasportato dal secondo utilizzatore in una zona diversa da quella in cui l’utensile è stato costruito inizialmente.

Questi diversi scenari forniscono informazioni che non sarebbero recuperabili nel caso in cui si pensasse al solo utilizzo dell’utensile in maniera asettica, dipendente esclusivamente dal suo utilizzo tipico.

Pur con le necessarie cautele è possibile applicare questa metodologia all’antropologia culturale; vediamone un esempio molto semplificato (schema di Fig. B) studiato per analizzare il fenomeno delle pitture corporee rituali (ad esempio un tatuaggio).

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Fig. B
Una possibile “catena operativa” in antropologia culturale, per indagare il caso di pitture rituali corporee.

In questo caso i diversi scenari dello schema devono leggersi in questo modo:

1 (“memorizza”) il soggetto impara da un maestro, o per emulazione del lavoro di altri, il disegno di una pittura facciale o corporale che possiede un significato ben preciso rispetto a quello che sarà il suo utilizzo (rituale, sociale, artistico, ecc…); 2 (“esegue”) il soggetto esegue (o fa eseguire da altri) il tatuaggio su sé stesso; 4 (“usa”) il tatuaggio viene utilizzato per i motivi precedenti). Ma si può verificare anche un altro percorso: 1 (“memorizza”) il soggetto agisce come nel caso precedente; 3 (“modifica”) apporta al disegno alcune varianti, decisione che ha infinite motivazioni (e che la cui analisi è proprio il risultato di questo tipo di indagine); 1 (“memorizza”) memorizza questa nuova versione del disegno; 2 (“esegue”); 4 (“usa”).

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Lo studio ed il confronto dei due diversi percorsi amplia, evidentemente, le considerazioni che si possono fare su questa particolare azione presa ad esempio.

La principale cautela da tenere, nell’uso di questa metodica in antropologia culturale rispetto all’antropologia fisica, riguarda il fatto che mentre nella seconda ogni azione rappresentata dalle singole caselle è guidata principalmente da pensieri rivolti ad una corretta esecuzione pratica, nell’antropologia culturale ciò che regge l’azione è soprattutto un pensiero socio-culturale.

Facciamo un banale esempio. Quando il soggetto esegue la funzione 2 (“affila”) dello schema della Fig. A, la sua mente è guidata da pensieri che lo impegnano ad ottenere un utensile ben costruito: è attento a colpire la selce, dalla quale parte per ottenere il raschiatoio, nel punto giusto con un percussore, cerca di non ferirsi, di non sprecare troppa energia, ecc…; mentre quando è impegnato nella funzione 2 (“esegue”) dello schema della Fig. B, per quando si impegni nell’ottenere un disegno di buona fattura, non può fare a meno di pensare ai significati (religiosi, sociali, culturali ecc…) inerenti a quanto sta eseguendo.

C’è quindi, nel caso della catena operativa utilizzata in antropologia culturale, una prevalenza di pensieri “alti” rispetto a pensieri “bassi” sui quali indagare (si utilizzano questi termini solo per facilità di schematizzazione) il che rende il lavoro di analisi più complesso.

Essi non lasciano una traccia fisica, a differenza di quanto potrebbe verificarsi nel caso del raschiatoio; in quest’ultimo caso, infatti, un’ulteriore affilatura potrebbe essere rivelata da una diversa inclinazione delle tracce lasciate dai colpi del percussore, da residui di diverse colorazioni (percussore di due diversi minerali), la sede del ritrovamento può suggerire l’uso del solo utilizzatore primario o il caso contrario, ecc….

Esistono quindi differenze sostanziali nel caso di analisi tra le due diverse “antropologie”, ma non tali da far desistere dall’utilizzo in entrambe le discipline.

[1] Era una ritualità a volte indirizzata al solo officiante, come nel caso delle pizie del mondo greco-romano, a volte diretto a tutti i partecipanti.

[2] A tale riguardo non ci si stancherà mai di ricordare che Claude Lévi-Strauss suggeriva ai suoi allievi lo studio della matematica, soprattutto dell’insiemistica, della statistica e della logica.

[3] A memoria di chi scrive (ma potrebbe non essere aggiornato) questo metodo non si è mai visto applicare in questa disciplina.