La conoscenza dei concetti mitici, la sua influenza su quelli rituali e la loro rappresentazione con la matematica simbolica contribuiscono a ricomporre le differenze culturali.

Si è già ricordato più di una volta[1] che l’uomo paleolitico ha puntato alla creazione di una visione del suo universo che rispondesse ad una struttura ordinata e facilmente interpretabile, perché questo lo metteva al sicuro dalle novità, dalle cose non spiegabili, e quindi gli permetteva di affrontare la vita con la minore ansia possibile. 

Nella sua ansia di strutturazione e classificazione del “sistema mondo” ha dovuto inventarsi un modello al quale ispirarsi, un modello che rappresentasse il mondo migliore, quello che meglio di altri rappresentava lo scudo contro l’ansia e la paura.

È un meccanismo che ancora esiste nella nostra mente, e che noi adottiamo, per esempio, quando facciamo un programma di viaggio: confrontiamo le possibili soluzioni con quella “ideale”, quella che ci permette di raggiungere la meta nel minor tempo e con il minor costo possibile.

Il modello ideale è quello che non risente dei limiti imposti dal mondo fisico, cioè quello che si potrebbe raggiungere se si possedessero risorse infinite a costo zero: nell’esempio che abbiamo preso in considerazione (il viaggio) il modello ideale è quello che ci fa raggiungere istantaneamente la meta (tempo impiegato uguale a zero) senza spendere soldi (costo uguale a zero).

Naturalmente ci si rende conto che il modello ideale non è assolutamente raggiungibile, ciò non di meno lo si utilizza come situazione estrema (quella che in matematica si definirebbe “al limite”) in quanto è necessario un obiettivo verso il quale tendere; per questo motivo non sarebbe corretto dire che il modello ideale non appartiene al mondo dell’uomo, dato che anche gli ideali sono parte dell’umano: non sono uno strumento utilizzabile ma uno strumento psicologicamente utile a definire delle strategie.

Questo concetto è perfettamente espresso nel Paradiso Terrestre cristiano, ma anche lontano da questa cultura non mancano esempi; un racconto dell’etnia Banda, in Africa Equatoriale, narra di un uomo che aveva vissuto per qualche tempo in paradiso. Torna sulla terra portando con sé frutti, animali e fiori, per ricrearvi lo stesso luogo incantato, ma nella discesa precipita con tutto il suo bagaglio, disperdendo flora e fauna in maniera disordinata per tutta la terra: il paradiso non può essere ricreato nel mondo dell’uomo[2].

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Particolare del dipinto di scuola naif “Corteo di cervi” di Ivan Generalic. L’esatta ripetizione di un modulo pittorico centrale esprime il desiderio di un mondo privo di sorprese, in questo caso maggiormente significativo che in eventi diversi, dato che il soggetto fa riferimento al mondo agricolo, che, a causa della dipendenza della sua esistenza da fattori ambientali, più di altri mondi risente della paura delle novità.

2

In questo dipinto del Beato Angelico viene, ancora una volta, riproposto uno schema ripetitivo che identifica la purezza del mondo celeste (tramite la schematizzazione ordinata) visto come modello ideale, in confronto al caos terreno.

Il modello ideale si cristallizza nella creazione del mito, di quel ricordo esagerato, modificato, amplificato negli atti e nei significati, di avvenimenti accaduti (forse) nel lontano passato; ricordo sconvolto anche nei concetti del sentire comune, sia per quanto riguarda gli orizzonti temporali (passato dopo il presente, presente prima del futuro, futuro dopo gli altri due) che geografici (se siamo qui non siamo in altri luoghi), per cui nel mito sono presenti interpreti che possono vivere in tempi dilatati e intersecantesi tra di loro, che possono vivere contemporaneamente in luoghi diversi.

Queste caratteristiche del mito, perciò, non devono confondere l’analisi antropologica di chi ne analizza il significato, in quanto il mito stesso ha come scenario un universo al limite tra quello dell’uomo e quello dell’immaginario, del sogno, al limite tra la vita e la morte, un universo che rende possibili atti solo immaginabili e incredibili.

Da quanto detto sembrerebbe che i concetti che il mito esprime non possano essere messi in discussione: sono la prima espressione della cultura di un gruppo umano, dal mito derivano una serie di norme di comportamento che regolano la convivenza sociale, e violarli rischierebbe la disgregazione del gruppo. Del mito si può quindi solo parlarne, ricordarlo, e fare si che tutti ne rispettino i dettami, che si possono riassumere nella frase “rispetto del mito” (o anche “rispetto degli antenati” perché in definitiva sono loro le divinità, gli eroi dei primordi, i “perfetti”, quelli che hanno creato l’universo).

Ma dato che, come abbiamo visto, il mondo reale non assomiglia a quanto prospettato dal mito, occorre trovare una serie di atti, una serie di “norme legislative” che aiutino l’uomo a trasformare il suo mondo in quello mitico, e che impediscano atti contrari a questa trasformazione in quegli individui che non volessero rispettarlo.

Esistono quindi “norme fondamentali”, fornite dagli antenati, che non si mettono in discussione, e “atti legislativi”, che devono essere invece inventati dall’uomo. Non crediamo di forzare molto il concetto se le paragoniamo rispettivamente a quelle che, nel nostro ordinamento giuridico attuale, chiamiamo “leggi costituzionali”, espresse appunto dalla Costituzione di un paese, e “leggi ordinarie”, ossia quelle inventate giorno per giorno dai rappresentanti politici di un paese per rendere lo stesso adatto ai tempi in cui si vive.

Se le “norme fondamentali” sono il mito, l’insieme degli “atti legislativi” inventati dagli uomini sono il rito.

Il rito assolve quindi a tre funzioni fondamentali:

  1. la riconferma della validità dei concetti espressi dal mito.
  2. la modifica di ciò che non risponde a tali concetti (se modificabile).
  3. l’eliminazione di ciò che non risponde agli stessi concetti (se non modificabile).

Quando gli uomini primitivi danzavano attorno al fuoco, all’inizio della primavera, ritenendo che ciò comportasse inevitabilmente la rinascita del sole dopo l’inverno, non facevano che riconfermare, tramite il rito della danza attorno ad un falò, il mito fondamentale che voleva il ritorno del caldo e dalla buona stagione dopo l’inverno. Questo ritorno del caldo era voluto dagli antenati perché solo così era possibile un mondo ideale, dove fosse possibile vivere, e non ne poteva esistere uno diverso (riconferma del mito).

Quando, attorno allo stesso falò, univano alla danza le invocazioni al bel tempo, pregavano perché non ci fossero modificazioni al mito (modifica) mentre bruciando sul fuoco sterpaglie e rami secchi, residuo dell’inverno, toglievano di mezzo tutto ciò che, per magia imitatoria, potesse impedire il rinnovarsi del mito (eliminazione).

Certo le tre fasi (riconferma, modifica ed eliminazione) non sono così ben identificabili nella ritualità, come, ancora una volta, la nostra mentalità classificatoria e schematica preferirebbe; dire dove finisce la ritualità di modifica e comincia quella dell’eliminazione non è facile, ma la cosa importante è che tutte e tre le fasi contribuiscono all’avvicinamento al modello ideale.

Ogni società possiede diversi miti, e società diverse possiedono miti diversi.

Questo non è in contraddizione su quanto precedentemente detto circa il concetto che i principi che il mito esprime non possano essere messi in discussione: non possono essere messi in discussione all’interno di una cultura che di quel mito ha fatto l’elemento portante della sua struttura sociale, ma possono essere messi in discussione da una cultura diversa.

Poiché le culture sono diverse sono necessariamente diversi i miti fondanti; conseguentemente sono diversi i riti che da questi discendono.

Miti e riti si diversificano a causa di motivi contingenti (esterni ed interni) che sono gli stessi che diversificano le strutture sociali.

Uno dei lavori riportati su questo stesso sito[3] ha messo in evidenza come l’immaginario divino di etnie come i Dogon del Mali e i Bamilekè del Camerun, che vivono in terreni particolarmente aridi e ventosi, sia formato sostanzialmente da divinità fatte di aria, come da vocaboli inerenti all’aria ed al vento sia formato il loro linguaggio, e altrettanto sia successo per le loro espressioni artistiche; diversamente succede per le popolazioni polinesiane, dove gli elementi caratterizzanti sono invece il mare e l’acqua.

In questo caso il motivo contingente che ha portato a miti diversi (l’ambiente fisico-climatico) è, evidentemente, un motivo contingente esterno.

Se, nel prossimo futuro, dovessimo venire in contatto con una civiltà extraterrestre intelligente, composta da individui con due braccia e sei dita per mano, non ci sarebbe da stupirci scoprire che possano avere una matematica basata sulla dozzina anziché sulla decina, come succede invece a noi pentadattili[4].

3

In questo caso il motivo contingente esterno è rappresentato dalla diversa conformazione corporea.

Motivi contingenti interni possono essere, invece, il grado di empatia, il senso del magico e del religioso, la struttura sociale.

Se pure i miti sono tanti, diversi da cultura in cultura, possiamo anche pensare che una popolazione originaria, quella che è partita dall’iniziale zona africana per spostarsi in tutto il mondo, potesse avere un mito originario; da questo dovrebbero essere nati i vari miti, sotto la spinta dei fattori contingenti ricordati. Dai singoli miti sono nati i rispettivi riti che, già differenti tra di loro perché originati da miti diversi, possono essersi ulteriormente modificati sempre a causa di ulteriori fattori contingenti, non necessariamente identici a quelli che hanno modificati i miti.

Definendo quindi “fattori contingenti M” quelli che hanno portato alla modifica del mito, e “fattori contingenti R” quelli che hanno modificato la ritualità, possiamo schematicamente rappresentare il tutto come indicato in Fig. 1.

È evidente che i fattori R ed M non siano necessariamente gli stessi: se un ambiente climatico, come l’aridità di una zona geografica, può intervenire a modificare i miti (come abbiamo visto confrontando l’immaginario delle popolazioni africane ricordate da quelle polinesiane) la stessa può intervenire anche a modificare un rito. Sempre riferendoci allo stesso fattore climatico non è difficile immaginare le differenze rituali tra un paese ricco di alberi ed uno che invece ne è sprovvisto.

4

Vivere su due dimensioni è un “fattore antropologico” che spinge l’uomo ad immaginare una creatura superiore a lui con la possibilità di superare questo limite, e perciò lo dota di ali.

Non succede invece il contrario. La modificazione di un rito avviene su un terreno molto pratico (per quanto potrebbe essere apportatore anche di significati concettuali) e per questo non può essere presente tra i fattori modificatori del rito, che avviene invece ad un livello teorico ben più alto. Se, ad esempio, un’etnia di agricoltori – allevatori modifica un rito sacrificale che prevede il sacrificio di maiali sostituendo questi con capre, perché più presenti nei loro allevamenti, è pensabile che il fatto non abbia nessuna influenza sul mito.

Eppure anche in questo caso è un fattore R che dipendente dall’ambiente, ambiente che può incidere anche su M.

Quindi esistono fattori ambientali che incidono su R ma non sono in grado di incidere su M; questo fatto, e la logica discendenza da questo, ossia che i fattori M sono in numero minore dei fattori R ma in questi compresi, è rappresentato nella matematica simbolica come in Figg. 2 e 3.

Sarebbe opportuno che gli antropologi utilizzassero sempre di più questo metodo di rappresentazione matematico-simbolica, che permette di esprimere concetti evitando di perdersi nei labirinti della verbosità. È particolarmente utile lo studio della topologia (o, più in generale, quello dell’analisi matematica) e della matematica ambientale di Vernon Reynolds e Vito Volterra, come già raccomandato da qualcuno ben più importante di chi scrive[5].

È sufficientemente evidente come le differenze culturali vengano create, in definitiva, da quelli che abbiamo chiamato “fattori contingenti”. Sono questi a creare quelle differenze che portano miti e riti a differenziarsi tra loro, in maniera a volte talmente profonda e complessa da creare miti completamente opposti ad altri, creando in questo modo i conflitti sociali.

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Gli antropologi sono consci di questo fatto, e il loro tentativo di studiare mitologia e ritualità, e le loro differenze, va appunto nella direzione della composizione (o almeno verso la riduzione) di tali conflitti.

Sarebbe però opportuno che i semplicissimi concetti presentati in questo lavoro, in una forma adatta allo scopo, facessero parte del corso di studi delle scuole pre-universitarie. Probabilmente avremmo minori conflitti sociali, in particolare quelli che hanno origine nelle differenze religiose e “razziali” (ci si perdoni questo ultimo termine, che dovrebbe essere bandito da tutti i libri, non solo di antropologia, ma che meglio di nessun altro esprime, ad oggi, le differenze dovute al colore della pelle).

Naturalmente non mancheranno mai, nella storia dell’uomo, i conflitti dovuti a problemi politici (che sono poi solo e sempre problemi rimandabili all’economia ed al concetto di “proprietà”) ma l’antropologia, in questo caso, può solo dare una mano.

Il resto lo deve fare il corpo sociale.

[1] Vedi Apofenia e Pareidolia, nella pagina Argomenti, e Luce e buio, una stessa dimensione, nella pagina Testi.

[2] G. MAZZOLENI – In viaggio dal cielo alla terra – su “Miti e leggende dell’Africa nera”. Newton e Compton, Roma, 2004.

[3] Vedi : Fuoco, aria, acqua: i ponti tra uomo e dio nella pagina Testi di questo stesso sito.

[4] Per questo motivo la sonda inviata nello spazio anni fa dagli Stati Uniti, che portava messaggi destinati a probabili civiltà intelligenti, recava, tra le altre, informazioni matematiche basate sul sistema binario. Qualunque società intelligente non può fare a meno di conoscere questo metodo di computazione matematica.

[5] Claude Levi-Strauss raccomandava agli antropologi, oltre allo studio dell’analisi matematica, anche quello della matematica economica.

Sono spesso riportati, nei testi di antropologia culturale, dei tentativi di rappresentare concetti con grafici e schemi, generoso tentativo degli autori di rendere in maniera immediatamente comprensibile quello che la lingua corrente può spiegare solo con lungo giro di parole; generalmente però, non essendo correttamente espressi secondo le regole della matematica simbolica, sono tentativi che finiscono per chiudere alcune porte ed aprirne altre.

Oggi, data la complessità del mondo scientifico, non possono mancare nel bagaglio dell’antropologo anche nozioni minime di chimica, biologia, medicina, astronomia. Sarebbe opportuno che le università inserissero una versione adattata allo scopo nei corsi di laurea in antropologia culturale.