L’importanza dell’opposizione politica nelle antiche organizzazioni sociali. (La teoria dell’intruso).

Esistono innumerevoli lavori prodotti dagli antropologi culturali sull’importanza del ruolo dei capi tribali e sull’incidenza di questa funzione sulla formazione delle strutture dell’organizzazione sociale. 

Pochissimo, invece, è stato scritto sull’importanza di quegli uomini che si opponevano ai capi designati dal gruppo tribale, e di quanto questa loro opposizione abbia influenzato la strutturazione della medesima organizzazione.

È intuibile che il ruolo della “opposizione politica” (così possiamo definire questa funzione, utilizzando un termine moderno) sia nata abbastanza tardi rispetto alla struttura gerarchica vera e propria: infatti, mentre il ruolo del capo nacque sotto la spinta di questioni pratiche o di sopravvivenza del gruppo (definire chi poteva assumere le decisioni nella maniera più utile per la tribù, o chi era in grado di manifestare quella forza fisica che era garanzia di sicurezza, questione che in piccoli gruppi era abbastanza facile da prendere) il concetto di opporsi alle decisioni della struttura al comando si sviluppò invece quando cominciano a delinearsi interessi contrastanti all’interno del gruppo.

In altre parole una vera e propria opposizione cominciò a manifestarsi quando i gruppi cominciarono a dividersi in classi sociali (continuiamo ad utilizzare, solo per comodità, termini moderni) ognuna delle quali aveva degli interessi diversi, e soprattutto tali da essere in contrasto tra loro.

Dando per ormai scontata la quasi universale accettazione della teoria duméziliana sulle strutture di potere nell’Europa antica[1], dobbiamo ritenere che il più importante alleato del ruolo del capo tribù venisse dal potere religioso; mentre la struttura popolare possiamo considerare fosse il braccio operativo degli altri due poteri (quindi, in qualche modo, dipendente se non addirittura sottomesso alle funzioni politico-militare e religiosa[2]) queste ultime due traevano l’una dall’altra la propria forza: quella religiosa definiva le leggi della convivenza traendole da un’ispirazione magico-rituale che veniva dal suo rapporto privilegiato con le divinità (oltre, naturalmente, ad occuparsi di questioni prettamente teologiche) e quella politico-militare le metteva in pratica, essendo investita in ciò dal potere religioso.

C’era quindi uno stretto rapporto tra le due: il potere religioso aveva tutto l’interesse a difendere quello politico che metteva in pratica le leggi sociali, e quello militare aveva naturalmente la convenienza a sostenere chi lo autorizzava a questo ruolo.

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Da tutto ciò nasce evidentemente che una opposizione al potere politico diventava automaticamente un’opposizione a quello religioso, e data l’importanza della religione nelle culture antiche, non era pensabile il dissenso fino a che non si metteva in discussione la figura divina stessa, oggetto di venerazione. Il conflitto non poteva nascere all’interno di un particolare gruppo tribale, dove gli individui erano legati alla stessa divinità; nacque invece quando, dall’unione più o meno casuale di più tribù (ognuna delle quali portava “in dote” figure religiose diverse) i dissidenti poterono appellarsi al credo religioso della tribù di provenienza per giustificare la loro opposizione.

Furono questi individui (che si potrebbero definire “intrusi” in quanto portatori di una diversa cultura) a rappresentare il nucleo attorno al quale poté coagularsi una prima forma di opposizione.

L’inevitabile reazione dell’autorità costituita a tale opposizione fu, probabilmente, sia di carattere politico-sociale che religiosa; mentre della prima è difficile trovare una testimonianza, in quanto le eventuali tracce “fisiche” di contrasti per questo specifico motivo all’interno di un clan sono indistinguibili da altre, magari avvenute con motivazioni diverse, per la reazione religiosa la questione sembra meno complessa, dato che in questo caso rimangono residui nella cultura e nei riti sociali.

Si tratta di individuare le tracce di quell’operazione che possiamo chiamare di demonizzazione dell’oppositore (anche se il termine “demonizzazione” va usata in senso lato) perché si trattava proprio di identificare l’oppositore stesso con il nemico della figura divina di riferimento[3].

Le tracce lasciateci dalla storia, anche se più tarda del periodo che si vuole analizzare, ci presenta innumerevoli azioni punitive giustificate dal reato di essere “nemico di Dio”; i colpevoli furono chiamati in molti modi: apostati, eretici, falsi profeti, ingannatori, traditori della fede.

Abbiamo usato termini relativi a figure di un periodo storico a noi più vicino, ma talmente diffuse che è impensabile ritenere che esse non affondassero le radici in strutture sociali estremamente più antiche; basti pensare al mito di Lucifero, angelo caduto, ma comunque “angelo”, ossia dotato di una sua sacralità iniziale, o a quello di Prometeo, che si oppone agli dei in favore dell’uomo, mito nel quale è impossibile non vedere il desiderio di favorire una diversa classe sociale.

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Un’immagine medioevale dell’Anticristo, identificato dai protestanti nella figura del Papa cattolico.

L’oppositore le cui caratteristiche erano più vicine al modello antico che stiamo analizzando è probabilmente quello dell’Anticristo: proprio per essere stato considerato non un dio, ma un suo succube, è quello che maggiormente si avvicina al modello che si sta proponendo; anche l’antichità del mito (è presente fin dai più antichi testi biblici e, precedentemente a questi, in quelli mesopotamici[4]) depone a favore di un modello pressoché universale delle culture indoeuropee; inoltre, proprio perché relativo a queste popolazioni, non compare in miti della cultura cinese o del lontano oriente[5].

Questo modello si potrebbe contestare con l’ipotesi che un dissidio all’interno di un gruppo nato dall’unione di più tribù, potrebbe essere risolto semplicemente con una successiva divisione della tribù composita; ossia un ritorno alla situazione precedente a quella dell’unione non avrebbe bisogno di dissidenti.

Un fenomeno di questo tipo, a prima vista, sembrerebbe infatti riportare le condizioni dei gruppi a quelle antecedenti al raggruppamento: due gruppi guidati da due diversi totem si erano uniti e poi, a seguito di dissidi, tornano a dividersi, ognuno a seguito del proprio totem. Dato il divorzio, niente più dissapori.

In realtà le cose vanno diversamente, in quanto sappiamo che, a seguito di legami acquisiti con possibili vincoli matrimoniali tra individui delle due tribù, le donne passavano alla tribù del marito (e quindi assumevano come elemento guida il totem di questo); l’opposto succedeva nelle civiltà matriarcali. Il risultato quindi era la presenza di due nuove tribù, nate dalla secessione, all’interno delle quali continuavano a permanere individui dell’altro clan (teoria dell’intruso) secondo lo schema sotto riportato.

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Lo schema della riunione e successiva divisione di due diverse tribù. A sinistra le due tribù (con totem diversi) e con elementi femminili (d, x) e maschili (u, y); al centro la fase di unificazione ed il mescolamento degli individui; a destra la divisione, dove i legami parentali hanno creato individui “intrusi” (identificati dalle lettere “y” e “d” in grassetto).

Tutto ciò, connesso ai problemi, noti in antropologia, delle diverse figure religiose legate a questioni di discendenza parentale, fu una delle basi del conflitto tra che portò alla divisione dei gruppi; il risultato fu la proliferazione dei totem tribali conseguente alla proliferazione delle nuove tribù, e l’altrettanto conseguente origine della divisione in classi della struttura sociale.

Il fatto che il dissidio su base religiosa sia stato il primo motivo (in senso temporale) ad aver originato perdita di coesione tra gruppi umani è estremamente significativo, ed ebbe le conseguenze che tutti conoscono: le guerre (e non solo nel lontano passato) sono state molto spesso giustificate da questioni religiose; anche quando nascevano per altri motivi, il collante principale era spesso la necessità della difesa di un certo tipo di civiltà legata ad una precisa impostazione religiosa.

Se questa motivazione è così importante anche oggi per buona parte della popolazione mondiale, tale da ridurre a semplici problemi religiosi le più importanti questioni belliche attuali (per quanto il termine “religioso” venga oggi sempre più spesso sostituito dall’idea della “difesa di un certo stile di vita” o di “scelta di civiltà”[6], come d’altro canto già fu fatto al tempo della guerra fredda, o dell’ascesa del potere economico della Cina) vuol dire che deve essere fortemente impresso nella nostra cultura il concetto della strutturazione gerarchica della società secondo la struttura proposta da Dumézil, secondo il quale ogni potere politico ed economico giustificano il loro potere in quanto ricevuto, quasi fosse un’«unzione», da quello gerarchicamente superiore, ossia quello religioso.

Il potere politico, oggi identificato dallo “stato” e quello economico, che si identifica invece nella “ricchezza” (o comunque dal detenere le risorse del pianeta) si sentono autorizzate nelle proprie scelte dall’unico potere superiore al loro, anche se, molto probabilmente, questo rimando è, almeno oggi, quasi totalmente inconscio.

Lo schema di questo concetto antropologico è quello mostrato nell’immagine che segue.

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Lo schema mostra come i motivi di un dissidio, sia che abbiano un’origine A (religiosa), B (politica), C (economica), poiché avvengono all’interno di una struttura indoeuropea su base duméziliana[7] (indicata dai rettangoli contenuti nella zona tratteggiata) trovano sempre una giustificazione che si fa scudo della struttura autoritaria a livello superiore. In definitiva tutto viene giustificato dall’etica religiosa. Nel mondo contemporaneo, e nei paesi sufficientemente laici, questa etica viene generalmente sostituita dal termine “civiltà”.

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L’arte ci ha tramandato innumerevoli trasposizioni dell’idea del “rifiutato” dalla società perché straniero, diverso, nemico o, appunto, “intruso”. Non va dimenticato che, da un punto di vista psicologico, la presenza dell’intruso possiede anche la caratteristica di assicurare coesione agli appartenenti dei gruppi al potere, per cui, oltre all’effetto negativo di rappresentare un pericolo, possiede anche un elemento positivo per chi si sente minacciato (è il classico fenomeno del “capro espiatorio”).

Come è già stato ricordato, mentre è difficile trovare prove “fisiche” di contrasti (lotte, battaglie, ecc…) che siano distinguibili da altre avvenute con motivazioni diverse, è più facile trovarne indizi nelle manifestazioni degli schemi culturali, soprattutto per quanto riguarda la struttura duméziliana: basti pensare alle bandiere nazionali, dove la maggioranza di esse è costituita da drappi tripartiti con il colore bianco (ad indicare la classe religiosa) quello rosso (per il potere statale – militare) e quello verde (o blu) ad indicare le classi popolari[8]; oppure alle carte da gioco, che se riportano i quattro semi fondamentali in quelle internazionali (i cosiddetti “semi francesi”: cuori, quadri, fiori e picche) soprattutto nelle vecchie patrie di origine indoeuropea (Francia, Italia, Spagna e Portogallo) ancora si usano le carte nazionali con le coppe (simbolo dell’autorità religiosa), le spade (il potere politico – militare), i denari (la borghesia) ed i bastoni (il popolo).

D’altro canto le carte da gioco altro non sono se non la versione più popolare, meno preziosa (e costosa) de gioco degli scacchi (altro fenomeno culturale che imita una lotta tra due nemici[9]) ma che, a riprova dello schema di Dumézil, essendo di origine orientale (e quindi non europea) si manifesta attraverso immaginette che rappresentano la sola struttura militare di comando (re e regine) e quella destinata al macello (tutti gli altri pezzi).

Quando lo stesso gioco venne trapiantato in Europa subì una trasformazione conforme alla struttura sociale europea, e così qualche volta si attribuì all’alfiere l’associazione con una figura religiosa. Ricordiamo che in inglese, per esempio, questo pezzo è chiamato bishop (vescovo).

[1] Georges Dumézil, L’ideologia tripartita degli indoeuropei, Il Cerchio, Rimini, 1988. Ricordiamo che secondo l’autore citato le antiche strutture sociali erano suddivise in quella politico-militare, quella religiosa e quella dei popolani.

[2] Sarà necessario arrivare alla rivoluzione francese per avere una prima vera e propria legittimazione ufficiale dell’importanza politica di una quarta classe sociale, quella basata sul capitale, che si inserì naturalmente, a livello superiore a quella del popolo. Ovviamente l’influenza delle classi ricche era forte anche prima di questo evento, anche se in maniera non ufficiale. Questa logica vale, naturalmente, solo per la cultura occidentale.

[3] Si ricorda sempre che si stanno analizzando fenomeni relativi alle cosiddette “società primitive”, pertanto si invita a non farsi trarre in inganno, qui e nel proseguo del lavoro, da termini che sembrerebbero riferirsi a periodi molto posteriori utilizzati solo per comodità di comprensione.

[4] Bernard McGinn, L’Anticristo, Casa Editrice Corbaccio, Milano 1996.

[5] È presente invece nella cultura araba (con il nome di Dajjâl, che significa “il mentitore”) importato evidentemente in questa dal fatto che l’islam, come il cristianesimo, nasce dalle radici della cultura religiosa abramitica.

[6] A dire il vero da qualche tempo, soprattutto a seguito dei problemi nati con le migrazioni di nordafricani ed arabi verso l’Europa, il termine “difesa della comune radice cristiana” comincia a riapparire sempre più spesso, alche se per il momento è limitata soprattutto a pubblicazioni in rete o destinate a fruitori senza grande visibilità pubblica.

[7] Per “struttura duméziliana” si è fatto riferimento, nello schema riportato, a quella attuale, dove compare la borghesia economica. Le due strutture dominanti antiche diventano, in questo caso, tre. Non è stata evidenziata la classe popolana la quale però non è detto non possieda anch’essa, alla luce dell’attuale sociologia, elementi per esprimere dissensi, che vengono poi manipolati dai livelli superiori per farle rientrare, ancora una volta, nello stesso schema.

[8] Riteniamo sia ovvia la logica che collega i colori al livello sociale. Il discorso è valido naturalmente per il periodo in cui gli stati nazionali erano pochi; con il proliferare del numero delle nazioni si è necessariamente dovuti passare, per evitare confusioni, ad aumentare la gamma dei colori e degli schemi utilizzati.

[9] Quello che oggi si chiamerebbe “gioco di ruolo”.