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In questa pagina si trovano lavori di antropologia culturale elaborati per indagare le tradizioni, i miti e le leggende popolari, con particolare riferimento (ma, come si è già detto, non esclusivo) alla Romagna.
Il materiale di partenza sono le tradizioni popolari di questa parte dell’Italia, le fiabe, i racconti, i proverbi ed i modi di dire, ma anche la toponomastica, il dialetto, gli antichi documenti bibliografici ma anche, naturalmente, i lavori più recenti sullo stesso argomento di tanti studiosi e ricercatori.
Poco tempo fa mi è capitato di assistere ad uno scherzoso litigio tra due ragazzini durante una estemporanea partita di pallone in un campetto alla periferia della mia città, e sono rimasto piacevolmente colpito dall’utilizzo di un epiteto indirizzato scherzosamente da uno di loro al suo antagonista: “Brutto patàca di un invornito!”.
Ho detto piacevolmente in quanto sentire alcuni termini dialettali che si mantengono nell’italiano, anche di chi non si esprime usualmente in romagnolo (in questo caso, poi, si trattava di un ragazzino nato in Italia, ma da genitori cinesi) fa supporre che il romagnolo potrebbe lasciare un proprio retaggio nella parlate degli anni a venire, come succede con parecchi termini delle lingue antiche.
“Il trionfo di Bacco”, del pittore spagnolo Velazquez, rappresenta Bacco assieme a degli ubriachi.
Ma cosa si dirà di queste parole in futuro? Si farà riferimento alla loro origine etimologica primitiva (ricordando che deriva dal greco, dal latino, dal francese …) o si dirà “antico termine derivato dal romagnolo…”?
Dopotutto se da un punto di vista puramente tecnico l’origine etimologica di un vocabolo è indubbiamente quella relativa alla sua più antica definizione conosciuta, è anche vero che ciò che rende vivo lo stesso vocabolo, ed il motivo per cui viene trasmesso nel tempo, è sopratutto l’uso che lo ha reso noto in un determinato periodo ed in una determinata lingua.
Ora è indubbio che sia proprio la tradizione romagnola che ha dato popolarità a certi termini, considerazione che vale senza dubbio per il fin troppo abusato pataca (questo termine viene probabilmente dal più comune italiano “patacca” inteso come fregatura, copia senza valore, che poi è passato come valutazione del carattere di una persona); il romagnolo non solo ha reso celebre questo vocabolo, ma lo ha coniugato in infinite varianti legate al carattere di un individuo, quasi si trattasse del risultato di un’indagine statistico-sociologica di un settore della popolazione: inoltre ne ha spinto la conoscenza al di là della Romagna al punto tale che il termine ha invaso la letteratura, il cinema e la televisione. Oggi è senza dubbio il termine che qualifica, senza ombra di dubbio, il “romagnolo verace”, basti pensare all’uso che ne ha fatto Federico Fellini.
Meno conosciuto e meno utilizzato è invece il termine invurnì (invornito), che a differenza del primo pone l’accento su una stupidità più stolida, tipica di un carattere con molte meno sfaccettature di quella precedente, quella che in italiano potrebbe essere tradotta come “ebete”; l’interpretazione corrente del termine (compresa l’etimologia) è quella riportata di seguito, sintesi di quanto proposto da autori diversi[1]: “È un termine utilizzato in Romagna, nell’Emilia orientale e nelle Marche (invurnìd o invurnìt), per indicare una persona impacciata fisicamente ma soprattutto mentalmente, dotata di scarse o nulle capacità cognitive, intuitive, deduttive.
Un esempio del pataca romagnolo nella letteratura
Comunemente spiegato con “stupido” o “scimunito”, può anche indicare uno stato di stordimento momentaneo. Il suo significato è: stordito, intontito, inesperto, tonto, alticcio, in preda ai fumi dell’alcool. Etimologicamente, sembra derivare dalla parola latina medioevale ebrionia, ossia “sbornia”. “Invornito” sarebbe quindi equivalente a ubriaco ed avrebbe affinità con il francese ivrogné (da ivrogne, anch’esso derivante da ebrionia).”
Il percorso etimologico sarebbe quindi: ebrionia › sbornia › imburnì › invurnì.
Ritengo però che potrebbe esserci un’altra versione[2] per l’etimologia di questo termine, in particolare reputo che possa provenire da termini come “scuro”, “nero” ed analoghi, a partire dal greco βορέας (bòrea) la personificazione dell’oscurità e del vento che viene da Nord, con le sue nubi scure e cariche di pioggia (non dimentichiamo che in romagnolo il Nord viene detto e’ mel canton: l’angolo cattivo, la parte cattiva, sfortunata). La radice -bor si è trasportata poi nel latino burere (bruciare) ed in tutti i sinonimi che ricordano il colore nero (o comunque scuro) dei combustibili bruciati, e di tutto ciò che è scuro: basti ricordare bur (buio), burnisa (la cenere), burneta (un antico termine per “padella”, ormai non più usato[3], che fa riferimento ovviamente al fondo annerito dal fuoco di questo contenitore per cibi) imburneda era l’atto di truccarsi il viso con la cenere durante il carnevale[4]. Anche gli inglesi, se pure usano black per indicare il colore nero e moore per “scuro”, “moro”, “bruno”, continuano ad utilizzare un termine (burial) imparentato al vocabolo latino burere, ad esempio quando si parla di sepolture (burial grave, “fossa mortuaria”).
Per contro, per quei comuni ma non strani casi di reciproco scambio di espressioni tra culture, il termine inglese black si è radicato anche nel romagnolo, ad indicare qualcosa di sporco fino al punto da non essere più utilizzabile: un blac (uno straccio sporco sino all’inverosimile, qualcosa che non si può più utilizzare per pulirsi le mani.) Il termine è passato anche ad identificare un abito molto semplice e fuori moda: u s’è mes un blac… (“ha indossato un abito brutto e scadente…”).
La “b” diventò una “v” secondo la regola di modifica in questi casi, nota fin dal 1800, come fa notare il linguista Parodi.
Con riferimento a Corssen[5] , scrive Parodi: “… una alterazione del suono originario della «b», che perdendo la sua natura d’esplosione bilabiale, si sarebbe mano a mano tramutato in una spirante simile alla «w» tedesca, sonora e labiodentale, che è come dire simile alla «v» italiana…[6] ”.
Stolz rincara la dose quando afferma “ … non solo all’interno dei vocaboli, ma anche nell’iniziale ...”[7] , e la stessa idea viene riproposta da Eggebert nel suo libro sulla pronuncia del latino[8].
Il percorso etimologico che abbiamo precedente visto a partire da ivrogné si modificherebbe quindi, in questo caso, in quello seguente: burere (bruciare) › imburnì (scuro perché bruciato) › invurnì (scuro nell’animo, nel sentimento, nell’intelligenza).
Nella mitologia greca Borea è il Vento del Nord. Raffigurato come un uomo barbuto alato, con due volti e la chioma fluente, si innamorò di Orizia, figlia del re Eretteo, e la rapì.
A sostegno di questa tesi si riporta la frase, sentita direttamente da chi scrive, di un’anziana signora che viveva nelle campagne tra Forlì e Ravenna, che dal carattere allegro che l’aveva sempre contraddistinta, ad un certo tardo momento della vita cominciò abbastanza rapidamente a diventare più chiusa e scontrosa, ed ai parenti che le chiedevano il perché di questo suo mutamento rispondeva: “A sò in burnia”. Sollecitata dai parenti più giovani a fornire una spiegazione di questa espressione, da loro ormai non più compresa, rispondeva: “Ormai par me l’è tot nir”.
Una variante del termine, ma meno utilizzato, è quella di indarlì. Ancora meno utilizzato è il termine ses (da leggersi con la “s” dolce, come nel termine italiano “rosa”).
Concluderei con un termine che ha a che fare con la Romagna, ma trasportato in un’altra regione d’Italia ha finito per diventare indicativa di quella stessa zona dell’Italia, così come pataca lo è per la Romagna.
Il termine “burino”, come sappiamo, è espressione tipicamente romanesca, e con esso dovrebbe essere indicato il contadino, ma è poi passato all’uso più comune di indicare, in maniera spregiativa, le persone prive di cultura e dal comportamento grossolano.
Secondo alcuni l’etimologia più probabile sarebbe quella che origina dal latino buris[9] (il manico dell’aratro) con particolare riferimento ai braccianti romagnoli che passavano dai lavori nelle terre possedute dalla Chiesa nella loro regione, ai lavori per lo stesso padrone nelle campagne laziali; infatti i contadini romagnoli alle dipendenze di un proprietario terriero romano in Romagna, durante i periodi autunnali in cui nella loro terra d’origine era ormai impossibile lavorare a causa della cattiva stagione, passavano quei periodi a compiere ancora qualche lavoro nella più temperata campagna laziale. Altri propendono per un’origine più semplice, legata al volto scurito dal sole di quei braccianti.
Non è da escludere che il termine possa nascere dal modo di rispondere di questi contadini, che alla sollecitazione del padrone di dare termine a lavori non ancora terminati mentre già si approssimava la sera, avrebbero potuto rispondere: Ma sgnor padron, an avdì cl’è zà bur (“Ma signor padrone, non vedete che è già buio”) mostrando con ciò di essersi perfettamente adattati ai metodi di lavoro un po’ più rilassati di quell’ambiente in confronto a quello della loro terra di origine.
Ma forse questa ultima considerazione pecca un po’ di eccessivo attaccamento al localismo romagnolo.
[1] Quondamatteo, G. Dizionario Romagnolo, 1982; Ercolani, L. Nuovo Vocabolario Romagnolo Italiano - Italiano Romagnolo, 1994; Casadio, G. Vocabolario Etimologico Romagnolo, 2008.
[2] Questa ipotesi è già stata pubblicata dallo scrivente in una precedente pubblicazione: Cortesi, R. Il buio ed il nero. Divagazioni sul concetto dell’oscurità nel dialetto romagnolo, pubblicato su questo stesso sito alla Pagina TESTI.
[3] Berti, E.: Il linguaggio furbesco, «la Piê», LXXIX, n°5, sett.- ott. 2010.
[4] Cavina, G.: Imburneda, «la Ludla», anno XI, n° 3.
[5] Corssen, W. P. Über Aussprache, Vokalismus und Betonung der lateinischen Sprache, Lipsia, B. G. Teubner, 1858.
[6] Parodi, E. G.: Del passaggio di “v” in “b” e di certe perturbazioni delle leggi fonetiche nel latino volgare, in «ROMANIA», Recueil Trimestral consacrè a l’étude de languages et des litteratures Romanes, Tome XXVII, n. 116, Avril 1898, Emile Barillon Editeur.
[7] Stolz, F.: Historische Grammatik der lateinischen Sprache, 1894.
[8] Eggebert, E. P.: Aussprache des Lateinischen nach physiologisch-historischen, Grundsätzen, 1885.
[9] Ravaro, F.: Dizionario Romanesco, Roma, Newton-Compton 2010.