Contributo alla comprensione di un modo di dire della Romagna

Un problema tipico in cui ci si imbatte studiando le tradizioni popolari è che la motivazione che sta all’origine di un gesto, di una frase, o del nome di un oggetto, si è molto spesso persa nel tempo (tipico, a questo riguardo, è il caso di molti proverbi). 

Ciò dipende dal fatto che le tradizioni popolari sono per lo più trasmesse solo oralmente, a differenza di quelle di quelle colte che godono invece di un supporto scritto, e che molti dei termini utilizzati sono scomparsi, o si sono modificati nel tempo, mentre la popolarità del proverbio o del modo di dire ha contribuito a fossilizzarne i termini utilizzati all’origine, trasportandoli in un presente che non ne percepisce più il vero significato.

Quando si indaga un problema di questo genere non si può ricorrere agli strumenti utilizzabili con le scienze esatte, per cui occorre rifarsi a ipotesi.

A questo riguardo esistono due modi di dire quasi complementari che vengono utilizzati per esprimere lo stesso concetto e che riguarda uno dei tanti termini con il quale si identificava, nel nostro passato popolare contadino, una ragazza in età adolescenziale: c’è chi sosteneva che la frase giusta fosse “ragaza di pi’ ros”, (ragazza dai piedi rossi) e chi invece ritiene che la definizione corretta fosse “ragaza di pi’ cios[1]”, (ragazza dai piedi sporchi).

Ognuna delle due “scuole di pensiero” sostiene la propria ipotesi con argomentazioni, tutto sommato, giuste: nel primo caso la frase si spiegava poiché indicava quelle ragazze che, durante le feste, non venivano invitate a ballare perché troppo giovani, e quindi, restando ferme sempre nello stesso punto, avevano i piedi arrossati per mancanza di movimento; la seconda ipotesi rimandava invece all’adolescenza perché le ragazzine erano costantemente scalze e quindi con i piedi sporchi (il primo paio di scarpe si acquistava solo ad una ragazza più adulta, già in età da marito).

Poiché nella nostra memoria collettiva entrambe le definizioni sono rimaste collegate al concetto della ragazza in età adolescenziale, più o meno con le stesse percentuali di validità (nel dibattito in questione quelle che abbiamo scherzosamente definito “scuole di pensiero” si dividevano quasi equamente i sostenitori) si può invece supporre che il problema nascesse da una sceneggiatura molto più articolata, che permetteva alle due definizioni di poter convivere nella stessa situazione, anzi in questo caso, come vedremo, permettevano di autosostenersi.

Immaginiamo una festa in campagna, dove si mangiava, si scherzava e dove poi, inevitabilmente si finiva per ballare. In un angolo c’era sempre una ragazza (di cui ignoriamo l’età) che nessuno invitava a ballare.

Ci sarà sempre stato qualche simpaticone che, prima o poi, le avrebbe rivolto la parola dicendo: “… e te sa fêt alè? Sa sit, la ragaza di pi’ ros?...” (sottinteso: “come mai nessuno ti invita a ballare?” – ancora più sottinteso: “sei così bruttina che nessuno ti invita a ballare?”); al che qualche parente della stessa ragazza, stizzito ma senza darlo a vedere, avrebbe risposto: “…mò lia; lia l’è la ragaza di pi’ cios…” (sottinteso: “non l’invitano perché è ancora una bambina, non perché sia brutta; non possiede ancora neppure un paio di scarpe! ”).

sorelle magg min

Ecco che in questo modo  la stessa ragazza veniva apostrofata con le due distinte frasi, provenienti da due persone diverse per sostenere due differenti interpretazioni della motivazione al mancato invito al ballo; ed quindi che nella memoria popolare questa situazione (che siamo più che sicuri si sia verificata molte volte) ha finito per memorizzarsi nella figura di questa ragazza (di cui, ripetiamo, ignoriamo l’età) ed ogni persona che è stata presente al fatto finiva per interiorizzare come rappresentativa di questa circostanza una delle due interpretazioni, a seconda di quanto si sentiva partecipe dell’imbarazzo della giovane o, un po’ più malignamente, godeva di tale imbarazzo.

Per quanto riguarda poi il quesito iniziale dal quale si era partiti (quale definizione per indicare una ragazza in età adolescenziale) dobbiamo concludere che, in realtà, nessuna delle due risponde a questa richiesta: se veramente si trattava di una ragaza di pi’ ros magari non veniva invitata veramente perché non particolarmente avvenente, e non perché troppo giovane (quindi nonostante fosse già una giovane in età da marito); se si trattava di una ragaza di pi’ cios era praticamente ancora una bambina, e non un adolescente.

Come si è anticipato è un’ipotesi, che si può condividere o meno, ma che ha senso prendere in considerazione fino a quando non se ne possa presentare un’altra che convinca maggiormente, secondo la nota regola logica nota come “rasoio di Occam[2]”.

ballo 1

D’altro canto riteniamo che nello studio delle tradizioni popolari non ci si può accontentare solamente di ciò che è certo, ma che si debba cercare continuamente di analizzare circostanze che sembrano interessanti, ed interpretarle sulle basi delle proprie conoscenze delle tradizioni, confrontandosi con le opinioni e le conoscenze altrui per impostare uno studio attivo del linguaggio e delle tradizioni; in caso contrario si sarebbe semplici custodi di un patrimonio di conoscenze statico, con tutti gli aspetti negativi che questo comporta. Per quanto detto precedentemente questo vale in particolare per i modi di dire, i proverbi, i toponimi, insomma in tutto ciò in cui è sottinteso una serie di conoscenze date già per note ed acquisite, oltre che allo studio delle tradizioni in senso più ampio.

Se poi questo significa proporre ipotesi che risulteranno non reggere il dibattito scaturito dal confronto con altri, non c’è niente di male: sarà per lo meno servito a sgombrare il campo da future infruttuose considerazioni.

C’è da fare anche una valutazione sulle persone che erano gli attori di questo dibattito: è molto probabile che il dialogo sopra riportato abbia avuto come protagoniste due madri (difficilmente due padri); il padre romagnolo, anche se intimamente risentito da certe insinuazioni, non poteva assolutamente darlo a vedere, per non essere considerato troppo “tenero” (sottinteso: effeminato).

Ma al di là del fatto, tutto sommato abbastanza divertente di questo fatto, è opportuno trarne anche qualche risultato antropologico.

È da tenere in considerazione che questa situazione non rappresentava solamente un momento di blando scherzo (o di imbarazzo, a seconda da quale punto di vista si consideri la cosa) nei confronti della giovane, ma che si trattava di un vero e proprio fenomeno di “iniziazione femminile inconsapevole”.

bimba contadina

L’antropologia culturale ha prodotto diversi lavori circa l’iniziazione maschile, identificandola in momenti ben precisi sia nelle società primitive (la prima partecipazione alla caccia collettiva, la prima partecipazione alle decisioni sociali del gruppo, …) che in quelle delle società in tempi a noi più vicini (la maturazione sessuale, la partenza per il servizio militare, …) mentre per quanto si trattava della situazione femminile i fenomeni di iniziazione sono sempre stati considerati esclusivamente quelli limitati a riti molto più comuni e rigidamente stabiliti: il matrimonio e la nascita del primo figlio (solo nelle società primitive veniva presa in considerazione anche la prima mestruazione).

In realtà c’erano molti altri momenti in cui la psicologia femminile veniva sottoposta a situazioni in cui la donna era costretta a misurarsi con un mondo che ruotava attorno alla sua trasformazione, momenti in cui la stessa donna era costretta a rendersi conto che il suo essere femminile era fonte

di comportamenti sociali, sia propri che degli altri, che dovevano inevitabilmente mutare. Il fatto è che nelle civiltà patriarcali erano solo le iniziazioni maschili ad essere considerate degne di nota, in quanto propedeutiche al futuro ruolo “pubblico” dell’uomo; quelle della donna erano legate semplicemente ad un ruolo più intimo (lontano dal sociale): quello di moglie e madre.

Per questo motivo abbiamo chiamato questo fenomeno “iniziazione femminile inconsapevole”.

[1] Il termine cios per sporco è tipico del ravennate e di parte di quello forlivese, così come ciusité (sporcizia). Quasi inutilizzato in altre aree della Romagna, nelle aree non ravennati o forlivesi è invalso il termine lôz (e il relativo aggettivo luzòs). Non mancano naturalmente termini diversi nelle zone di confine con altre aree linguistiche.

[2] Il “rasoio di Occam”, detto anche “principio di economia”,  è un principio metodologico che suggerisce di scegliere, tra le tante possibili soluzioni di un problema, quella più semplice o più probabile, per lo meno fino a quando una nuova interpretazioni risulti più semplice o più probabile. Il nome discende dall’essere stato proposto, nel  XIV secolo, dal filosofo e frate francescano inglese Guglielmo di Occam (1288 – 1347), ed è ritenuto fondamentale per l’ulteriore sviluppo della logica e del pensiero scientifico moderno.