TARXIES
Testi

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I riti della Romagna legati alla fine dell’anno sono molti, spiegabili con semplici analisi sociali ed antropologiche[1].
Cominciando da quelli legati al punto più sacro della casa, il camino, possiamo ricordare l’uso di porre a bruciare un ceppo abbastanza grande da poter superare la mezzanotte e quindi bruciare ancora nell’anno nuovo. È abbastanza facile vedere in questo rito un tentativo di “sollecitare la continuità” della vita, paragonandola alla continuità del fuoco, che non viene arrestata dal sopraggiungere dell’anno nuovo.
Legato a questo era il rito di cospargere i campi con la cenere del ceppo di cui sopra: il ceppo riceveva una sacralità proprio perché aveva superato l’anno, sacralità che trasmetteva alla cenere; spargerla sui campi voleva dire trasmettere questo beneficio anche ai prodotti della terra. La cenere poteva essere sparsa sui campi semplicemente spargendola sui campi, oppure sotterrandola, o ancora tracciando delle croci facendola scorrere dal pugno semichiuso; in quest’ultimo caso è evidente una contaminazione di un rito antico, di origine pagana (quello della sacralità del fuoco e della cenere) con uno più tardo, di origine cristiana (l’uso del disegno della croce).
Gli spari di fucile con i quali i contadini salutavano l’anno nuovo erano invece destinati a spaventare gli spiriti malvagi che in questo particolare momento erano particolarmente numerosi (e avremo modo di vedere perché). Questa tradizione si è mantenuta nel tempo sostituendo gli spari con mortaretti e fuochi d’artificio.
Lo stesso effetto era ottenuto da uno scampanio particolarmente prolungato.
Un altro rito era quello di porre delle sedie davanti al camino, nelle quali si pensava si sarebbero riposati Giuseppe, Maria e Gesù mentre la famiglia abbandonava la casa per recarsi a celebrare la messa di mezzanotte. Anche questo è un caso di contaminazione tra l’uso pagano di dare ospitalità agli spiriti vaganti nella notte e i culti cristiani.
Come si può vedere si tratta di riti in cui buona parte dell’immaginario è ancora intrisa di rituali magici, retaggio di quel lungo periodo antico in cui l’uomo riteneva il suo universo, sia quello reale nel quale viveva, sia quello sede delle divinità, come un unicum in cui si incrociavano fenomeni concreti e soprannaturali, dove gli atti degli uomini non potevano sfuggire alla vista ed al giudizio degli dei.
Era il mondo delle religioni animistiche e totemiche.
Alcuni totem dei nativi americani
Tutto possedeva un’anima, sia il mondo animale che quello vegetale e minerale. Questo conduceva l’uomo a domandarsi dove si trovasse l’anima, visto che non la si “vedeva” nel mondo reale. Era normale identificare il luogo in cui vivevano questi personaggi dell’etero con lo stesso in cui si potevano trovare le anime del mondo onirico, dato che era l’unico in cui l’uomo poteva quasi vivere le situazioni più strane e inimmaginabili, che era lo stesso del mondo dei morti.
Nella sua paura di tutto quello che era razionalmente inspiegabile l’uomo cercò di dare un ordine schematico al suo mondo, unico modo per capirlo e, quindi, di non averne paura. Si creò allora l’idea di un luogo intermedio tra la vita e la morte (un mondo liminare), nel quale si trovavano sia le divinità che gli uomini che ancora non erano definitivamente morti, quelli ancora impegnati in quel lungo viaggio che li conduceva nel luogo della scomparsa definitiva.
Il concetto dell’esistenza di un lungo periodo di tempo necessario all’uomo per raggiungere lo stato di “cadavere ”, ossia quello di un insieme di elementi naturali (ossa e altri residui) che non possedeva più niente di spirituale, è stato indagato dall’antropologo francese Robert Hertz in un suo lavoro[2], dopo aver notato che diverse popolazioni applicavano il metodo della “doppia sepoltura”. Era questo un rito che prevedeva una prima sepoltura temporanea, per la quale il cadavere era preparato usando tecniche che, almeno in parte, ricordavano quelle egizie di imbalsamazione. In questo periodo il cadavere era tenuto nell’abitazione o in luoghi poco distanti dalla stessa, e partecipava ai riti famigliari. Una seconda sepoltura, definitiva, si svolgeva con ritualità tali da suggerire la definitiva scomparsa del cadavere dal mondo dell’uomo.
Se questo metodo da una parte forniva ai vivi un periodo di tempo per superare il dolore della scomparsa del parente (o, come si preferisce dire in antropologia, di “elaborare il lutto”) dall’altra ammetteva un lasso di tempo necessario al defunto per raggiungere definitivamente la sua ultima dimora; fatto probabilmente correlato alla verifica che un periodo di tempo era necessario anche alla formazione di una nuova vita.
In questo particolare periodo lo spirito del defunto lo si poteva incontrare in un unico luogo, l’unico non-reale che anche un vivo poteva frequentare: quello dei sogni.
Una Pizia durante un vaticinio (da un vaso greco a figure rosse).
Una fotografia di uno sciamano siberiano attorno al 1940.
In questo luogo-non-luogo gli spiriti degli uomini buoni potevano incontrare i vivi, e, in quanto parenti o amici (dobbiamo ricordare che le società del periodo di cui stiamo parlando, decine di migliaia di anni fa, erano composte da poche persone, quindi quasi tutte imparentati tra loro o comunque legate da vincoli molto stretti), potevano aiutare i vivi intercedendo presso le divinità.
Il problema diventava quello di mettersi in contatto con loro a piacimento, e non solo quando si dormiva e si sognava. Si tentò di risolvere questo problema con la ricerca di uno stato “diverso” (potremmo definirlo, con un termine oggi in voga, “di coscienza alterata”) ottenuto magari con l’assunzione di sostanze stupefattive, o con metodiche fisiche (rumori con moduli ripetuti ossessivamente, danze eseguite fino allo sfinimento, mutilazioni o, comunque, auto-ferimenti per produrre dolore che isolava dal mondo esterno).
La bibliografia su questo argomento ricorda innumerevoli metodi di questo tipo, in tutto il mondo e in tutte le epoche. Basti ricordare cosa succedeva nell’antichità con le Pizie, o fino a pochi decenni fa con le tecniche sciamaniche.
Questo spiega come si poteva entrare in contatto con il mondo dei “temporanei defunti”, ma non spiega perché questo contatto avveniva particolarmente, e in misura maggiore, in certi momenti dell’anno.
Per capire questo fenomeno occorre fare una parentesi, e parlare del metodo di misurazione del tempo.
Pianta del sito rituale celtico a Libenice (Bosnia Erzegovina). Con “A” è indicato il nemeton.
Il computo del tempo era estremamente importante per l’agricoltura dell’antico passato, molto di più di quanto succede oggi, periodo in cui siamo assistiti dai metodi di conservazione delle derrate alimentari e dall’aiuto della meteorologia. Nel passato sbagliare il periodo di una semina voleva dire condannare a morte intere popolazioni; l’uomo, notato il ritorno ciclico delle costellazioni, cominciò allora a computare il tempo collegandolo al movimento delle stelle, dato che era più facile guardare il cielo notturno che quello diurno.
Uno dei primi strumenti utilizzati a questo scopo furono gli stagni lunari, ad esempio il nemeton delle popolazioni celtiche. Era questo uno specchio d’acqua poco profondo facente parte di un complesso più vasto, utilizzato per riti religiosi; il nemeton si utilizzava segnando la posizione delle stelle più luminose che vi si riflettevano, forse con paletti di legno infissi sul fondo dello stagno o con altri metodi. L’osservazione del cielo durante centinaia di anni permetteva di realizzare un primo rudimentale calendario.
Con il metodo della “levata eliaca” (ossia quello di segnare la posizione di particolari stelle nell’esatto momento della levata del sole) si incominciò a studiare un diverso calendario, quello solare, che parve migliore di quello lunare[3]. Non solo, ma il confronto tra i due calendari mostrò una differenza di circa dodici giorni all’anno (il cosiddetto dodecameron).
Questa differenza inculcò nell’uomo l’idea che questo particolare periodo dell’anno fosse qualcosa di anomalo, qualcosa che faceva si che in questo periodo potesse succedere qualunque cosa, anche e soprattutto i fenomeni legati al mondo degli spiriti.
Il periodo anomalo capitava all’inizio dell’anno, che per gli uomini antichi coincideva con l’inizio della primavera. A causa però del passare del tempo e del fenomeno cosiddetto della “precessione equinoziale” (nonché delle varie riforme calendariali) le stagioni si spostarono nel tempo, per cui arrivando ai tempi recenti questo periodo va identificato tra il 25 dicembre e il 6 gennaio.
Era questo il periodo in cui si apriva una porta tra il mondo dei morti e quello dei vivi. I morti, attraverso quella porta del mondo liminare, potevano entrare nel mondo dei viventi.
Di questa porta di collegamento tra due mondi abbiamo sufficienti notizie nel periodo romano[4].
Il luogo fisico di collegamento era chiamato Mundus Cereris, e gli abitanti di Roma ne identificarono, all’interno del proprio territorio, più di uno (il più importante sembra fosse sul Palatino). Era una grotta, chiusa da un pesante masso (lapis manalis) che veniva aperto tre volte l’anno: il 24 agosto, il 5 ottobre, e l’8 novembre; pertanto per i romani il periodo di collegamento tra i mondi si limitava a sole tre giornate, lontane tra di loro.
Probabilmente non andò perduto il ricordo del periodo del dodecameron, e l’apertura di dodici giorni rimase nella mente degli uomini più a lungo del ricordo del rito di Roma, fino a trasferirsi nelle nostre tradizioni religiose.
Ma una cosa era chiedere un favore ad un morto appartenente alla famiglia, ad un avo, attraverso un indovino o un sacerdote, una cosa era avere una frotta di morti sconosciuti che circolavano liberamente nel mondo dei vivi.
Dei morti si aveva paura, perché erano imprigionati in un mondo buio, e i morti stessi, privi del calore umano del mondo dei vivi anelavano di tornare alla vita e non volevano tornare nel loro mondo; anzi potevano addirittura portare i vivi con loro.
È questo il “fenomeno dell’ambivalenza” nel confronto dei morti: si amano in quanto antenati, e si chiedono a loro dei favori, ma allo stesso tempo si temono. Allora si fa di tutto per ingraziarseli: si pongono dei doni nella tomba (cibo, vestiario, armi, suppellettili, tutto ciò che usavano da vivi) perché non abbiano desiderio di venire a cercarli nel mondo reale.
A volte si infigge, con chiodi o caviglie in ferro, il loro corpo nella tomba[5]. Se per caso escono dalla tomba si fanno ancora dei doni perché non si arrabbino e tornino nel loro mondo. Le società cominciavano a strutturarsi, e i primi capi tribù, che erano probabilmente contemporaneamente re e sacerdoti, pensarono di utilizzare la paura dei morti per imporre le prime regole di convivenza sociale.
Il fenomeno venne sfruttato dai capi della tribù a fini legislativi: bisognava rispettare le regole sociali, perché chi non lo faceva durante il periodo del mundus patet veniva trascinato dai morti nell’aldilà.
I capi di queste società primitive organizzarono delle “armate” con scopo dimostrativo (uomini dipinti di bianco, in modo da rappresentare le ossa umane) che ritualizzano il fenomeno delle armate dei morti. Questo fenomeno è ancora esistente presso alcune popolazioni primitive attuali, ed era presente in tutta l’antichità.
Un esempio della ritualizzazione di questo fenomeno era quello dei Lupercalia romani, dove i morti erano guidati dal dio Fauno (Pan per altri; proprio per la paura delle armate guidate da Pan si è arrivati al moderno sostantivo “panico”).
Nei Lupercalia romani un uomo era il capo dell’armata dei defunti, e colpiva con una frusta soprattutto donne.
Lo stesso fenomeno è quello della “caccia selvaggia”, presente anche oggi nelle tradizioni delle popolazioni nordiche, dove è Odino a guidare un’armata di morti a cavallo. Un ricordo della tradizione nordica è presente anche nella Divina Commedia, nel brano che narra di Nastagio Degli Onesti.
Gli antropologi ne hanno trovato traccia in tutto il mondo, chiamandolo in diverse maniere (charivari[6], skimmigton, encerrada), ma l’analisi dei significati e della ritualità hanno dimostrato che si tratta sempre dello stesso fenomeno.
Nella cultura europea medioevale il ricordo più noto che viene da questo fenomeno, e che ha lasciato segni sia nel costume sociale che nell’arte, è rappresentato dalla “danza macabra”, o dalla lunga fila guidata dalla morte.
A loro volta le danze hanno lasciato tracce ripercorribili; molti balli popolari non sono altro che la ripetizione di questa ritualità.
Esiste lo stesso fenomeno anche nel mondo islamico; tra l’altro il termine “macabro” viene proprio dall’arabo: makbr significa cimitero in arabo. I ricordi di queste danze sono pervenute fino ai giorni nostri anche in altre forme culturali, ad esempio, nei film e nella pittura.
A capo del corteo c’era quasi sempre una figura infernale. È interessante notare come certe figure del mondo artistico siano la diretta emanazione di questo personaggio. Arlecchino, considerato generalmente una figura del teatro comico, nasce come figura demoniaca (Helle Quinn – regina dell’inferno), tanto è vero che alcune immagini ce lo mostrano in compagnia di demoni. Anche Dante, nell’Inferno, ricorda il demone che immerge i dannati nella pece bollente come il demonio Alichino. D’altro canto molte delle più antiche figure della commedia dell’arte avevano connotati orrorifici.
Tracce sono rimaste soprattutto nel patrimonio folklorico in parecchie parti del mondo: nei Mamutones di Mamoiada, in Sardegna; nei balli dei morti della cultura messicana, nei Berserkir tedeschi, nei Krampos del Trentino e in Austria (il caso dei Krampos in Alta Italia è, tra l’altro, un interessante esempio di commistione tra ricordi pagani e religione cristiana, dato che a guidarli è San Nicola). Altro esempio è quello dei Zidalkos dei Paesi Baschi, studiati da Juan Caro Baroja.
I Mamutones sardi, i Krampos dei paesi nordici e i “pasqualotti” romagnoli sono retaggi dell’esercito dei morti del periodo precristiano.
Anche nei Pasqualotti romagnoli, che vanno a chiedere bevande e cibo, e a lanciare minacce anche non troppo velate a chi non ne offre, troviamo lo stesso antico ricordo: la richiesta ai vivi di alcune di quelle che sono le delizie e la consolazione del mondo terreno, come il calore del fuoco ed il ristoro del cibo.
L’analisi del testo delle canzoni dei Pasqualotti ce ne da una dimostrazione:
“….Siam venuti da lontano….
….Sgnor padron arvì la porta, che acquè fora u jè la morta
…e lè dentar u jè l’aligria…viva Pasqua Epifania….”
(“…Siam venuti da lontano….
…Signor padrone aprite la porta, che qui fuori c’è la morte
… e lì dentro c’è l’allegria…viva la Pasqua Epifania…”),
e ancora (“…e se non ci date niente vi venisse un accidente…”).
Evidentemente è un richiamo alla differenza tra il luogo molto lontano dal mondo dei vivi (“…Siam venuti da lontano….”) in cui dimorano generalmente i defunti (un luogo “qui fuori”, dove c’è “la morte”) mentre nella casa dei vivi (“lì dentro”) c’è cibo e allegria. E altrettanto è identificabile il richiamo alla minaccia (“…e se non ci date niente vi venisse un accidente…”).
È facile trovare un parallelo con i ragazzini di Halloween che strillano: dolcetto o scherzetto! I bambini vestiti in maniera da terrorizzare la gente non sono altro che i discendenti degli antichi guerrieri del corteo dei morti, che imponevano alla gente di comportarsi secondo ben precise regole sociali, pena l’essere condotti nel mondo dei morti. L’unica differenza sta solo nel fatto che il messaggio si è molto addolcito.
La consapevolezza della derivazione di questa festa (per quanto oggi molto calata in una logica commerciale) da antiche tradizioni europee dovrebbe far cessare le polemiche che spesso sono sorte tra chi la sostiene e chi la considera un’istigazione a seguire tradizioni pagane, se non addirittura “sataniche”[7].
Generalmente si attribuisce l’origine del nome “Halloween” ad una translitterazione della frase inglese All Hols Even (Festa di tutti i Santi), ma più probabilmente viene da Jack O’ Lantern, una figura della tradizione irlandese che era stato condannato dal demonio a vagare nella notte eterna facendosi luce con una lanterna realizzata con una zucca svuotata (da cui la costante presenza della zucca nella festa).
Dato che in inglese to hollow significa “svuotare” (hollowing è quindi l’atto dello “svuotamento”) è questa probabilmente l’origine del nome.
La festa di Ognissanti fu istituita dal papa Gregorio III nel 740 d.C. al posto del rito celtico di Samahain, come richiesto dal clero irlandese.
[1] Per una disamina su questi riti si consigliano i testi riportati in questa nota. Si tratta di lavori che illustrano il panorama della ritualità legata alle feste annuali in maniera estremamente particolareggiata ed esauriente: ANSELMO CALVETTI - Antichi miti di Romagna : folletti, spiriti delle acque e altre figure magiche - Maggioli. Rimini, 1987; Id. - Alle origini di miti fiabe e leggende: Teodorico e altri protagonisti – Longo. Ravenna, 1995; ERALDO BALDINI - Alle radici del folklore romagnolo : origine e significato delle tradizioni e superstizioni – Longo. Ravenna, 1986; Idem - Paura e "maraviglia" in Romagna : il prodigioso, il soprannaturale, il magico tra cultura dotta e cultura popolare – Longo. Ravenna, 1988.
[2] ROBERT HERTZ - Contributo alla rappresentazione collettiva della morte – su: "L'Année sociologique", Gallimard, Parigi, 1907. Traduzione italiana di Adriano Prosperi, UTET, Torino 1994.
[3] Si pensa che alcuni antichi monumenti megalitici, come quello molto famoso di Stonehenge, in Inghilterra, servissero anche per questo scopo.
[4] RENATO DEL PONTE – Dei e miti italici. Archetipi e forme di sacralità romano-italica – Genova. ECIG, 1985; JACQUELIN CHAMPEAUX – La religione dei romani – Il Mulino. Bologna, 2002.
[5] Presso il Museo Antropologico dell’Università di Bologna sono conservate una serie di sepolture in cui i cadaveri sono stati inumati utilizzando vari metodi per impedire loro di ritornare sulla terra.
[6] Particolarmente nel caso del charivari è presente una forte connotazione del richiamo a rispettare le regole sociali e a non seguire comportamenti che possono essere in disaccordo con uno sviluppo considerato “normale” della società. Ad esempio nella “Festa dei Becchi” di Santarcangelo di Romagna le “scampanate” (da intendere come una forma di derisione e pubblica denuncia) che si attuano nei confronti dei mariti che hanno mogli infedeli (i “becchi” in romagnolo sono i caproni, ma anche i mariti traditi dalla moglie, a causa delle corna presente nell’animale), o di anziani che sposano mogli troppo giovani, sono una indicazione di un fenomeno considerato “anormale” in quanto “improduttivo” per la società: infatti le mogli infedeli sono un elemento di turbativa dell’ordine sociale, e i matrimoni di persone troppo vecchie non porteranno, come invece dovrebbe essere, alla nascita di figli, privando il gruppo sociale di forze produttive. Gli anziani senza figli, infatti, finiranno per diventare un peso a carico della collettività.
[7] Nei primi anni del nostro secolo una diatriba sorta su queste interpretazioni tra un gruppo di giovani che organizzarono questa festa e le autorità religiose di una cittadina romagnola rischiò addirittura di finire in tribunale. Fortunatamente l’intervento di qualche saggia persona impedì che la cosa avesse uno strascico comico e grottesco, e tutto terminò senza la necessità di ricorrere alla legge.