TARXIES
Luce e buio, una stessa dimensione
- Renato Cortesi
- Categoria: Testi
La Candelora è una festa legata alla luce vincente sul buio; ma non sempre il buio è stato considerato un “luogo” negativo.
Oltre ai riti primaverili dei falò (probabilmente il rito più famoso tra quelli tradizionali romagnoli) un’altra delle feste che fanno riferimento alla luce è quella della Candelora.
Sia la data della ricorrenza religiosa (il 2 febbraio) che la ritualità la identificano immediatamente come il ricordo di una festa religiosa tarda, nata per volere di Papa Gelasio I nel 493 d.C.
Anche gli oggetti del rituale la classificano come una festa tipicamente cristiana; il cero prese il posto delle lampade votive ad olio, di tradizione romana, solo dopo che Costantino concedette la libertà di culto ai cristiani (nel 313 d.C.).
Il cero, e la candela, divennero simboli così rappresentativi del cristianesimo da assumere significato di rottura con altre confessioni religiose: basti pensare alla candela di cera bianca usata dai cattolici in contrapposizione a quella in cera grezza (giallastra, con odore di miele, ottenuta dal favo delle api) utilizzata dagli ortodossi, o alle candele nere utilizzate dai sedicenti satanisti[1].
Nella religione ebraica le candele vengono utilizzate nella celebrazione dello Shabbat, durante il rituale Havdalah, nel Yahrzeit e in quello dell’ Hanukkah.
La Candelora è una di quelle feste religiose che si è allontanata molto, almeno nell’immaginario popolare, dal significato originario, che la vedeva come un rito di purificazione.
Infatti presso i Romani alle calende di febbraio, in onore di Giunone Februa, venivano eseguiti riti di espiazione (februe) legate ai Lupercali. Ovidio ricorda, nei “Fasti”, come il pontifex, in questa occasione, bruciasse farro e sale a questo fine; e nella tradizione ebraica la donna, dopo un periodo di purificazione seguente al parto, presentava il figlio alla comunità mediante la sua “esposizione” nel tempio.
Papa Gelasio ottenne l’abolizione dei Lupercali e la sostituzione di questa festa con quella della Candelora, e lo spostamento della stessa al 14 dello stesso mese, come ricorda l’Itinerarium Egeriae, poi anticipata al 2 da Giustiniano.
Di questi antichi concetti è rimasto solo il ricordo nel nome del mese di febbraio (dalle februe latine) mentre quello della purificazione derivante dai miti ebraici, dato che ufficialmente la festa celebra la presentazione di Gesù al tempio ( che avveniva, perciò, dopo il periodo di purificazione della madre) è stato sostituito dal concetto di Gesù “luce per illuminare le genti”[2], inserendo così questa celebrazione in quelle legate ai concetti di “luce come salvezza”.
La presentazione di Gesù al tempio.
La festività della Candelora è probabilmente legata anche alle celebrazioni in onore della Madonna del Fuoco di Forlì, con una devozione che si è spinta fino a Cervia (dove è considerata patrona dei salinari), a Rimini e ad Ancona (dove invece è la patrona dei fornai).
Si dice che questa festa nacque per onorare un’immagine della Madonna che si era miracolosamente salvata da un incendio sviluppatosi il 4 febbraio 1428. Generalmente l’incendio viene attribuito ad un camino utilizzato per scaldare il locale che conservava l’immagine; più probabilmente è attribuibile alle candele accese in gran numero in occasione, appunto, della festa della Candelora.
Il fatto di avere la Madonna come divinità di riferimento e la luce come oggetto di rito, la rende una delle feste meno “specializzate”, dove, con questo termine, si intende quel particolare fenomeno per cui alla divinità specifica si impetra una richiesta ben precisa, ritenendola di essere in grado di assolvere bene “solo” quella particolare richiesta.
Questo concetto è tipico delle forme religiose di quelle culture che stanno andando verso forme involutive, caratterizzate dalla presenza di forme nevrotiche e paranoiche, di rituali ripetitivi, ossessivi; in questi casi si nota una proliferazione di divinità di riferimento, dedicate a rispondere a richieste particolari o a gruppi sociali ben definiti.
È quel tipo di struttura sociale che giustifica pienamente il concetto strutturalista di Levi Strauss della società organizzata: l’uomo spaventato ha bisogno di darsi una struttura schematicamente e rigidamente organizzata, che lo difenda da tutte le variabili negative che può incontrare nel corso della sua esistenza; per questo motivo si crea una frotta di divinità, ognuna delle quale assolve ad una necessità ben precisa.
Un esempio classico di questa mentalità religiosa fu quella del tardo impero romano, caratterizzato da un pantheon che era diventato un calderone di divinità diverse, che derivavano tanto da quelle antiche latine dei tempi precedenti la repubblica che da quelle asiatiche, come fu per il dio persiano Mithra, se non addirittura dalla trasposizione di alcune cristiane.
Si riporta, a titolo di esempio, un elenco di divinità romane di questo periodo, che dimostra la “specializzazione” richiesta alle stesse.
DIVINITÀ DI RIFERIMENTO |
OGGETTO |
Adeona |
viaggio di ritorno |
Angerona: |
tonsille |
Deverona: |
pulizia della casa |
Edula: |
carni commestibili |
Eres: |
conio delle monete |
Libitina: |
funerali |
Panda: |
strade libere |
Notodo: |
grano (dalla germinazione alla prima spiga) |
Paventia: |
bambini spaventati |
Pertunda: |
primo giorno di matrimonio |
Robigo: |
ruggine del grano |
Stata: |
principi di incendio |
Sterculo: |
concimazione dei campi |
Tutilina: |
le messi dopo la raccolta |
Vagitano: |
primi vagiti |
Statano: |
dava forza alle gambe dei bambini piccoli |
Un certo residuo di questa estrema suddivisione delle caratteristiche precipue delle antiche divinità pagane è rimasta, per esempio, nella proliferazione dei santi e beati del cattolicesimo, che oggi, comunque, assume una certa importanza solo in quelle società che possiedono le caratteristiche di chiusura ed involuzione a cui si faceva riferimento precedentemente.
Tipicamente società agricole di luoghi che hanno avuto una forte emigrazione, e quindi sono rimaste abitate prevalentemente da anziani, abbarbicati nei loro ricordi e chiusi al cambiamento inevitabile dei tempi. Il sud dell’Italia, per esempio, è pieno di manifestazioni di questo tipo (una fra tutte la festa di San Domenico detta “dei serpari”, a Cocullo, in provincia dell’Aquila) ma altrettante se ne trovano nelle nicchie delle società agricole di tutta Europa[3].
Proprio a causa della specificità del fenomeno descritto queste feste sono fortemente differenziate le une dalle altre, sia nel santo invocato sia nella ritualità.
A questo fenomeno sfuggono però le feste legate alla luce e al sole, data la straordinaria importanza che questi elementi hanno sempre avuto per gli uomini di tutti i tempi e di tutti i paesi. Inutile ricordare le divinità solari presenti nella cultura vedica, in quelle africane e centro-americane[4]; ci si limiterà qui a prendere in considerazione solo alcuni casi relativi alla cultura a noi più vicina, quella europea.
In tutta l’area del bacino mediterraneo le religioni precristiane sono state accomunate dal fatto di non possedere, nella propria teologia, un luogo di dimora delle anime dei morti vicino o coincidente con il luogo in cui ponevano le proprie divinità.
Esistevano spazi tristi e bui, come l’Ade dei Greci, dove le anime vagavano in uno stato spersonalizzato e quasi privo di sentimenti e desideri, ad altri molto simili delle religioni assire e babilonesi, o nell’immaginario degli Egizi; solo chi avesse compiuto azioni eccezionali poteva ambire ad un posto vicino agli dei, o in luoghi vicini, come nel caso dei Campi Elisi, e, analogamente, solo gli autori di crimini efferati erano destinati ad una dannazione eterna.
In tutte queste religioni il luogo delle beatitudini era destinato esclusivamente agli dei; anche i Persiani, con l’invenzione del Parhadeiza (che ha dato origine al termine Paradiso) immaginavano un immenso giardino fiorito e ricco di alberi ed animali, ma era destinato ad accogliere l’anima dei soli re e principi.
Il destino finale dell’uomo non era perciò legato alle sue azioni durante la vita; esse potevano solo servire a perpetuarne la gloria presso i suoi discendenti, ed ad acquisire quello stato di nobiltà che permetteva di loro di non sfigurare nel confronto con gli antenati, essendo solo il giudizio dei discendenti e degli antenati in grado di garantire, rispettivamente, un felice ricordo nelle memorie future del mondo dei vivi, e una posizione “non biasimabile” all’interno di una “architettura universale” in quello dei morti.
In questo tipo di cultura, che ancora non divideva il mondo ultraterreno in due luoghi così fortemente contrapposti come succederà poi con il cristianesimo, il concetto del bene e del male era soggetto ad un’accettazione più rassegnata ed indulgente di quanto non accadrà in anni posteriori alla nascita del cristianesimo (e molto di più di quanto accade oggi).
Questo non significa naturalmente che l’uomo non facesse di tutto per eliminare il male (e il dolore) dalla propria vita, ma riteneva la vita stessa un’inevitabile miscela di bene e male (ricordiamo che presso i Greci il Fato era più importante di tutti gli dei) ed era portato quindi a dare la stessa valenza ai due concetti: esse erano due entità con la stessa forza, e nella vita di un uomo poteva succedere, senza che ciò fosse considerato particolarmente eccezionale, che la “quantità” di male fosse superiore a quella del bene, e che non necessariamente la sua sopportazione stoica di quest’ultimo gli avrebbe fornito meriti speciali.
Sarà solo con il cristianesimo che nascerà il concetto che alla fine di tutto il bene avrebbe prevalso, in quanto filosoficamente superiore al male, e che, a seguito di ciò, le divinità buone erano inevitabilmente superiori alle forze del male, destinate alla sconfitta finale.
Questo concetto dell’inevitabilità di un’escatologia positiva è stata la forza del cristianesimo, offrendo all’uomo quella certezza della salvezza (se pure dipendente dai suoi comportamenti terreni) che le religioni precedenti non gli fornivano.
Come bene e male erano tra loro così rapportabili, altrettanto succedeva per le loro rappresentazioni simboliche, come la luce ed il buio, il giorno e la notte, il bello ed il brutto, la vita e la morte. La mancanza del concetto di demonizzazione del male (così come oggi noi lo sentiamo, ossia come qualcosa di innaturale, quasi una punizione ingiusta che non ha tempo di aspettare il giudizio finale) portava all’accettazione della morte come facente parte di uno dei fenomeni della vita, così come ad una condiscendente accettazione del brutto e del buio.
Naturalmente non bisogna confondere gli aspetti filosofici con quelli psicologici; pur in questa rassegnata accettazione l’uomo continuava ad aver paura della morte e del buio, a non apprezzare il brutto, a fare di tutto per allontanare da sè il male: i ragionamenti esistenziali non sono sempre (anzi non lo sono quasi mai) in grado di allontanare da noi le paure ataviche, che hanno origine dalla nostra natura umana e che garantiscono la sopravvivenza della nostra razza.
Per questi motivi nella civiltà del passato fiorirono culture religiose come il manicheismo, che davano al bene ed al male la stessa valenza e facevano dell’accettazione stoica del male e di quella discreta (e senza eccessi) del bene i valori fondamentali; per lo stesso motivo noi oggi ci troviamo a cercare spiegazioni logiche a personaggi della mitologia antica che sembrano contenere in sè stessi un’ apparente contraddizione.
Uno di questi è Lucifero.
Generalmente considerato un demonio, fin dai tempi antichi, come spiegare il significato indubitabilmente positivo del suo nome, la cui etimologia significa “portatore di luce”?
Il fatto si spiega semplicemente quando apprendiamo che nelle religioni sumeriche, che sono le prime a ricordare questa figura, Lucifero era uno dei demoni legati all’oscurità, ma che decise un giorno di regalare all’uomo almeno una briciola di luce; per fare ciò precipitò sé stesso sulla terra sotto forma di una cometa infuocata.
La trasposizione di questo mito in quello più tardo, della cultura mitologica greca, è evidentemente quello di Prometeo.
Né l’atto di Lucifero né quello di Prometeo condussero alla vittoria della luce sull’oscurità, conformemente al concetto descritto di assoluta parità del bene e del male delle dottrine manichee, ma quando il mito di Lucifero passò alla cultura cristiana il valore di questa figura fu costretto a mutare, perché non era possibile assegnare una valenza positiva, se pur minima, ad un personaggio legato al mondo della negatività (ricordiamo che i testi sumerici lo ricordano comunque come una divinità legata al buio).
La presenza della falce lunare nelle immagini di Artemide può aver contribuito alla creazione delle corna del demonio.
La bibliografia cristiana inventò così (è proprio il caso di usare questo termine) la leggenda dell’angelo ribelle precipitato sulla terra per punizione.
La demonizzazione delle figure della paganità operata dal cristianesimo si estese a diverse altre figure.
Artemide, con le sue immagini legate alla luna, paritario con quello solare di Apollo, diventò un simbolo negativo. Nonostante si attribuisca la creazione dell’aspetto cornuto del demonio alla traslazione di figure pagane come il dio Pan e i satiri, è probabile che l’immagine di Artemide, spesso rappresentata con le falci lunari, abbia contribuito a creare la presenza delle corna nell’idea comune che abbiamo del demonio.
A questo punto la strada era aperta, e si rafforzò sempre di più il concetto del male, dell’oscurità, del bello e del buono come elementi con valenza inferiore (e perciò destinati alla sconfitta finale) nei confronti del bello e del luminoso.
È appena il caso di ricordare l’influenza di questo concetto nella produzione artistica (soprattutto pittorica) della cultura europea.
[1] Che il satanismo debba intendersi una forma di religione, come sostiene qualche studioso di questi fenomeni, è una convinzione che l’autore di questo lavoro non condivide, ritenendo piuttosto che vada collocato tra i fenomeni sociali di autoreferenziamento a sfondo patologico.
[2] In questo modo Gesù venne apostrofato da Simeone alla presentazione al tempio.
[3] GIOVANNI PELOSINI – Il giorno più buio e il sole dell’estate – su: “Spirito Libero”, a. III, 21, Montecatini V.C., 2010; ALFREDO CATTABIANI – Lunario. Dodici mesi di miti, leggende e tradizioni popolari d’Italia – A. Mondadori. Milano, 1994.
[4] JULIEN RIES – L’uomo e il senso del mistero; Africa e Australia – Jaka book, Milano 2001. In questo testo viene ricordato come l’uso delle candele, generalmente associato a riti religiosi europei, è comune anche in Africa, in particolare durante la celebrazione della festa del Kwanzaa; JEAN VARENNE – Religione vedica ed Induismo – Laterza, Bari, 1973.